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Perché il biohacking entrerà nelle nostre vite (spiegato da un hacker)

scienze

Con il tono sarcastico e dissacratore che lo caratterizza, nel 1994 Bruce Sterling descriveva gli hackers come dei “romantici e noiosi adolescenti punk di periferia”. La periferia, il margine della società industrializzata, dove all’interno di vecchi garage, tra lattine di birra vuote e sigarette rubate ai genitori, questi adolescenti si accontentavano di giocare con i detriti di quel nascente impero tecnologico che avrebbe presto pervaso qualsiasi aspetto della nostra società.

Bruce Sterling. Foto: businessisdigital.com

Detriti che questi “noiosi adolescenti” riuscivano a trasformare in giocattolini utili a telefonare a scrocco dalle prime cabine analogiche. Oppure in pezzi d’arte concettuale che ora trovate pieni di polvere nella cantina di qualche ricco privato.

Per loro riappropriarsi di questa tecnologia – smontandola, modificandola e riutilizzandola a proprio piacere – non fu solo un gioco, e divenne ben presto un atto politico, un atto sociale, ma soprattutto un atto liberatorio che li avrebbe lentamente posizionati al pari di quelle stesse industrie che erano pronte ad trasformare in una serie di algoritmi il mondo intero.

Trenta anni fa il mondo dell’industria tecnologica iniziava un rapido percorso che portò i computer ad essere sempre più miniaturizzati e sempre più presenti nella nostra vita quotidiana. Nei prossimi trenta c’è chi giura che le biotecnologie seguiranno una sorte molto simile.

Immaginate per un momento di tornare indietro nel tempo: quando gran parte delle attività che ora svolgiamo in autonomia, con il nostro computer, qualche app e con poche altre risorse, veniva affidata a terzi che erogavano servizi oggi in via di estinzione.

Questa rivoluzione è stata incentivata e contribuisce in gran parte alla modularizzazione delle componenti hardware e software che costituiscono le tecnologie digitali. Un fenomeno che ha permesso ad una larga base di professionalità di contribuire allo sviluppo e alla trasformazione di mercati sempre più ampi e diversificati.

Ora pensate al cibo, all’energia, ai materiali compositi. Ma non solo, pensate ai farmaci, alla diagnostica medica, e a tutto ciò che oggi viene offerto dal sistema sanitario. Pensate al gran numero di sostanze chimiche che utilizziamo nella vita di tutti i giorni.

Se gli scorsi trenta anni hanno portato un tablet nelle mani dei nostri nonni, sicuramente i prossimi trenta porteranno nelle nostre abitudini lavorative e sociali dei mini bio-reattori che chiameremo computer biologici.

Ma facciamo un passo indietro.La scorsa estate, al mio ritorno da un lungo in viaggio nell’ecosistema dell’innovazione cilena, mi ritrovai con della gente un po’ strana su Vartiosaari, una piccolissima isola incontaminata della Finlandia. Ero in campeggio con una parte della comunità internazionale di quelli che si fanno chiamare biohackers.

Non preoccupatevi se questa parola non vi é familiare, perché in quella sperduta isola della Finlandia tra una sauna nudi (da farsi rigorosamente dopo la mezzanotte) ed un tuffo nel Mar Baltico, abbiamo discusso anche il significato di biohacking.

Andai su Vartiosaari per partecipare a Commoners United, un bellissimo festival sui Commons (i beni comuni de’ noialtri). Una sera, dopo la consueta sauna di mezzanotte, ci avvicinammo al fuoco per asciugarci e bere qualcosa insieme. Così, Mikko, uno degli organizzatori del festival iniziò a raccontarci la storia di questa isola: Vartiosaari. Un posto abitato da poco meno di venticinque persone che coltivano e preservano il paesaggio: un paesaggio che presto verrà raso al suolo, assieme a quello di altre piccole isole circostanti, per estendere l’area urbana della capitale finlandese.

Mikko mi passo una deliziosa grappa di liquirizia fatta in casa, il Salmiakkikossu. Ne bevvi qualche sorso per poi passare la bottiglietta a Rüdiger, un ragazzo tedesco sui ventotto anni che avevo conosciuto qualche mese prima al Transmediale di Berlino.

Rüdi mi raccontò che da qualche anno ha messo in piedi una discreta comunità di biohackers a Berlino, e che presto si sarebbero spostati dall’hackerspace in cui sono ospiti, lo SpaceAgency, per andare in un spazio dedicato che possa accogliere il crescente numero di persone e di progetti.

Da lì a breve, lui e gli altri biohackers europei iniziarono a parlare di alcune inquietanti visite ricevute poco tempo prima da una coppia di agenti dell’FBI. Rüdiger mi confessò il suo sospetto che anche quelli del BND (Servizio di Informazione Esteri della Repubblica Federale Tedesca) stavano maturando interessi particolari su ciò che stava facendo lui e gli altri del gruppo.

Mi chiedevo cosa spingesse l’FBI e i servizi tedeschi ad avere una attenzione così particolare sulle attività di quattro ragazzini che si divertono a giocare con delle gelatine puzzolenti.

Presto fu tutto chiaro. Pare che questi signori vengano mandati in giro (anche in Europa) per raccogliere apertamente informazioni su chi si occupa di biohacking. Accordi apparentemente molto informali e ambigui che sembrano volere influire sullo sviluppo di queste comunità “..dai ti invitiamo una settimana da noi negli States, tutto pagato, così per farci due chiacchere, perchè lo sai che è importante, che ci devi dire tutto, perchè sai… noi abbiamo un grande computer nel deserto che può sapere tutto di tutti”.

Quando si tratta di biosicurezza tutto pare legittimo. Ma siamo sicuri che i reali motivi siano questi?

La linea ufficiale è che agenzie come l’FBI temono che “persone non autorizzate” abbiano intenzione di giocare un pò troppo con quelle gelatine puzzolenti, e che magari, un giorno, venga loro in mente la malsana idea di usarle come arma di distruzione di massa.

Un’evenienza possibile, ma ad oggi altamente improbabile per tutta una serie di ragioni tecniche e sociali che non verranno trattate qui. Ragioni che comunque non giustificherebbero un’attenzione così marcata come quella che l’FBI sta dimostrando nei confronti del biohacking in Europa.

Ascoltando i miei compagni di campeggio i reali motivi di queste visite sembrano essere altri, di ordine più economico e geopolitico. Infatti, la DARPA (Agenzia statunitense per i Progetti di Ricerca Avanzata per la Difesa), con la benedizione di Obama, sta mostrando un crescente interesse nell’accedere e posizionarsi negli ambienti della prototipazione rapida a basso costo, tipici dei FabLab e del biohackerspaces. Nell’ambito del diy-bio, la DARPA ha di recente istituito un bando pubblico per “identificare approcci non convenzionali per costruire comunità tecniche che riescano ad intercettare sorgenti di innovazione fuori dai tradizionali circuiti del Dipartimento della Difesa”.

Credits: biogarage.de

L’IDENTIKIT DEL BIOHACKER


Senza addentrarci ulteriormente in questa trama, definiamo quindi chi sono e cosa fanno questi biohackers. Comprenderemo sicuramente meglio le implicazioni economiche, strategiche e geopolitiche del biohacking, e degli interessi dei militari verso approcci non convenzionali di ricerca e sviluppo.

Tra le innumerevoli innovazioni portate dal mondo della diy-bio, possiamo elencarne alcune tra le più promettenti. Amplino è uno strumento open source e a basso costo che permette di pronosticare la malaria; invece BentoLab è un laboratorio di biologia molecolare portatile che sta in una piccola valigetta. Alcuni amici invece stanno sviluppando OpenDrop una piastra elettrofluidica per diminuire il costo e aumentare l’efficienza e l’affidbailità della ricerca biomolecolare.

Al FabLab Roma Makers, con un paio di studenti della Biohack Academy, che di giorno sono ricercatori in ambito nanotech e parallel computing, abbiamo sviluppato una vernice super-idrofobica open source e un interfaccia grafica per operare questa piastre e contribuire a questo progetto.

Siamo abituati a costose macchine in costosi laboratori, ma se osserviamo le esigenze di ricerca e di diagnostica in Africa o in altri luoghi del Sud globale ci accorgiamo ben presto che queste Ferrari della ricerca servono a ben poco per produrre impatto.

Innanzitutto c’è bisogno di consapevolezza e di conoscenza per sfatare il mito che la ricerca seria in biologia molecolare si possa fare solo in contesti come Ivy League, California o Giappone. Infatti, come per tanti altri settori, l’innovazione potrebbe arrivare sempre meno da quei luoghi mitici e sempre più da contesti impensabili prima d’ora, più dinamici e quindi più abili a generare disruption.

Tra i vari progetti che nascono nella galassia del biohacking c’è ne uno in particolare che mi sta molto a cuore: Biostrike. Tra dieci anni ritorneremo a morire di faringiti e altre infezioni che oggi sono considerate banali e curabili. Infatti, a causa di politiche sanitarie inefficaci e scarsa informazione, l’utilizzo massivo e incontrollato di antibiotici ha portato i batteri patogeni a mutare e a sviluppare resistenze multiple causando un’emergenza sanitaria ed ecologica che ora è in cima alle liste di tutte le organizzazioni che si occupano di sanità a livello mondiale.

Lo European Centre for Disease Prevention and Control stima che la resistenza microbica agli antibiotici risulta in 25000 decessi e costi sanitari per € 1,5 Mld ogni anno. Tubercolosi, Gonorrea e infezioni del tratto urinario stanno diventando incurabili. Il WHO richiama l’attenzione su questo problema dicendo che “la crisi degli antibiotici potrebbe porre fine alla medicina moderna così come la conosciamo”. Si parla di “post-antibiotic world”, un terribile fenomeno emergente ben spiegato in questo articolo di Caterina Visco su Wired. La resistenza microbica agli antibiotici è soprattutto una sfida sociale che tecnica. E’ causa diretta della società sempre più urbanizzata, alimentata da una smisurata produzione zootecnica che svolge il trattamento delle acque in modo centralizzato. Un’altra causa principale è l’abuso di antibiotici in ambito medico. Per chi volesse approfondire consiglio caldamente di guardare “The post-antibiotic world and Indonesia’s palm bomb”, un documentario di Vice per HBO.

Per correre ai ripari bisognerebbe investire tempo e denaro, ma le logiche sul ritorno degli investimenti delle grosse compagnie sono ormai tarate su tempi di ritorno brevissimi e non c’è più interesse a sviluppare nuovi antibiotici. Ogni anno i finanziamenti R&D di big-pharma sono sempre meno profittevoli, un fenomeno chiamato LeggediEroom (per chi è familiare con l’informatica: Legge di Moore all’incontrario!) che spinge le compagnie farmaceutiche a concetrarsi su mercati più profittevoli nel breve termine.

Con il progetto BioStrike, un progetto di ricerca diffuso in cui partecipa anche l’italiana RuralHub, stiamo tentando di offrire una possibile soluzione alla crisi degli antibiotici, facendo leva sul concetto di Ubiqutous Knowledge sviluppato da grandi pensatori del nostro tempo come Salvatore Iaconesi e Oriana Persico. BioStrike è un gruppo di ricerca distribuito che attraverso varie pratiche collaborative con scuole e realtà del territorio produce conoscenza diffusa raccogliendo e testando una gran quantità di campioni di terreno dove potrebbero potenzialmente vivere organismi produttori di antibiotici.

Sì, il prossimo antibiotico potrebbe essere prodotto da una muffa che vive nel parchetto Cavallo Pazzo della Garbatella di Roma.

Va da sé che le grandi compagnie non sono strutturate per raccogliere campioni in modo così diffuso, ma i FabLab e le scuole lo sono, e non solo – potrebbero soprattutto estrarne un valore aggiunto dal punto di vista didattico oltrechè di coscienza civile e sanitaria, aspetti ai quali le giovani generazioni si potrebbero avvicinare ulteriormente.

BioStrike sta cercando investitori per finanziare un progetto pilota che partirà in Italia con un camper attrezzato con un laboratorio e un team di biohackers che faranno il giro del paese per iniziare a raccogliere campioni biologici e diffondere consapevolezza nelle scuole e nei musei. Se siete interessati potete facilmente raggiungermi con un messaggio.

Per attivare queste comunità possiamo ispirarci a ciò che sta accadendo in altre reti europee e mondiali. Sempre al FabLab Roma Makers abbiamo attivato Biofactory, il primo corso della BioHack Academy ideato da Pieter Van Boheemen e promosso dalla Waag Society di Amsterdam. Il corso, ormai terminato, si è posto l’obiettivo di costruire dieci macchine open source da laboratorio utilizzando Arduino, sensori e attuatori vari per coltivare microrganismi e per produrre biomateriali. Questo è ovviamente solo un inizio. Molto presto tutto il materiale didattico, dispense e video verranno rilasciate gratuitamente in licenza Creative Commons sperando di gettare i semi per un nascente ecosistema italiano della biologia fai-da-te.

Ora che abbiamo visto più da vicino cosa fanno i biohackers, torniamo alla parola stessa.

Biohacking: una parola prismatica, mutevole a seconda di chi se ne appropria e del contesto nel quale la utilizza, per questo spesso abusata per definire fenomeni molto diversi tra loro. Al di là delle sue varie declinazioni fuorvianti e poco significative, come quelle che letteralmente incarnano i così detti “grinders”, o quelle a tinte acide di alcuni “cyberpunk”, possiamo provare ad inquadrare questo fenomeno nella sua dimensione meno ovvia e scontata: quella geopolitica, o per dirla con Foucault e tanti altri, la sua dimensione biopolitica.

Si può dire che il biohacking rappresenti tutta quella serie di pratiche scientifiche ed artistiche, che unendo uno spirito di attivismo e di hobbismo, hanno come obiettivo principale la diffusione, presso un pubblico sempre maggiore, dei rudimenti della biologia e dei suoi strumenti di indagine.

Il fine di queste pratiche non è ben definito – essendo un approccio di ricerca comunque guidato dalla curiosità pura. Tuttavia, se dovessimo proprio trovarne uno, si potrebbe dire che il senso del biohacking è quello di aumentare la consapevolezza dei più svariati attori sociali sul significato delle scienze biologiche, e su quali possibili e desiderabili futuri biopolitici l’essere umano debba ritenersi co-creatore.

Il mondo del biohacking (in particolare quello europeo e sud-est asiatico) cerca di abilitare la discussione attorno a queste tematiche, con un’approccio estensivo che consente a diverse prospettive di emergere. Un fine abbastanza condiviso è quello di comprendere meglio quali sono gli immaginari che discipline come la biologia molecolare, e in particolare la biologia sintetica suscitano in vari segmenti della società.

L’azione del biohacker sembra sempre più rivolta a provocare una riflessione sul crescente rapporto simbiotico che sta accadendo tra la biologia e gli oggetti artificiali, una relazione che ha ampiamente dimostrato di poter rimodellare i fondamenti anatomici, fisiologici ed ecologici delle specie viventi su questo pianeta. Le moderne conoscenze di biologia molecolare, e le tecnologie convergenti che costituiscono la biologia sintetica, tendono ad indebolire le classiche categorie epistemologiche ed ontologiche che hanno storicamente definito e separato le cose viventi dalle macchine artificiali. Tali tecnologie rappresentano ormai un punto fondamentale di non ritorno per ripensare a quale tipo di metaforicità e di discorsività adottiamo quando trattiamo discipline che interessano le scienze biologiche o le scienze che studiano lo sviluppo tecnologico. In questo modo si sta aprendo la strada a nuovi metodi di indagine che mirano alla comprensione dei diversi rapporti tra la biologia, le macchine e l’ambiente naturale.

Foto: america.aljazeera.com

Oggi la nostra specie è infatti in grado influenzare pro-attivamente la performance e l’evoluzione degli organismi biologici, grazie a specifiche abilità tecniche che gli permettono di andare a riscriverne il codice genetico, creare nuovi organismi o sterminarne di vecchi. Tra le tante applicazioni possiamo utilizzare questi organismi come sensori medici o ambientali, come fabbriche di molecole e come macchine per la produzione di energia.

Possibilità, queste, senza precedenti storici, le cui implicazioni accendono importanti dibattiti nella nostra società, interrogandoci sulle dimensioni etiche e post-antroprocentriche di un futuro nel quale i corpi e gli ecosistemi diventano, non solo oggetti di mercato e di legge, ma fili sottili sui quali si gioca la nostra esistenza e quella dell’intera biosfera.

I biohackers infatti stanno sperimentando e proponendo metodologie a basso costo per diagnosi mediche e ambientali, ricerca e sviluppo di antibiotici e biofarmaci, materiali innovativi così via.

E sia ben chiaro, i biohackers non sono nicchie di fricchettoni rigettate dal mondo dei grandi laboratori o dell’accademia che con i soldi di papà si divertono a giocare con strane gelatine puzzolenti.

No, essi sono individui e gruppi che – a differenza degli ambienti istituzionali e corporativi dai quali spesso provengono – operano per socializzare i processi produttivi delle biotecnologie: una vasta area multisciplinare nella quale noi tutti risultiamo stakeholders di default.

Ritornando alla definizione di Bruce Sterling a proposito degli hackers, una cosa è certa: pochi avrebbero previsto che qualche decennio dopo, il capitalismo contemporaneo avrebbe inglobato ed elevato la figura dell’hacker a pioniere che agisce come interlocutore privilegiato per le imprese che vogliono ridefinire il loro processo di valorizzazione, innovando il loro prodotti e servizi. Fuori dai domini delle grandi fabbriche digitali abbiamo ancora hackers che vivono alle periferie, oggi non solo più luoghi fisici, ma spesso virtuali e che in modo capillare si estendono in contesti della società impensati prima d’ora per la cultura hacker: dal mondo rurale a quello delle comunità locali, fino a quello dalle istituzioni governative, andando ad ampliare in modo inclusivo e partecipativo l’accesso ai mezzi produttivi e alle strutture di governance.

Un processo che parte dalle periferie per arrivare ai centri nevralgici della società contemporanea, operando a cavallo tra il mondo digitale e quello reale. E in mezzo?

In mezzo resta il respiro, resta la vita, ma soprattutto restano i corpi. Corpi che producono. Corpi che iniziano a chiedersi il valore reale di questa produzione: il bio-valore.

HACKER E SCIENZA

Si può dire che la prassi dell’hacker applicata al mondo dell’istruzione e della ricerca scientifica confluisce e contribuisce a tutte quelle pratiche che prendono il nome di open science.

Il biohacker Gabriel Licina ha sperimentato su se stesso una soluzione con Ce6 per potenziare la vista notturna. Foto: mic.com

L’open science stimola lo sviluppo e l’applicazione di modelli che trasformano l’accesso alla conoscenza e alle infrastrutture di ricerca scientifica, con l’assunto fondamentale che esse debbano aver un carattere più trasversale, al di fuori dei normali contesti accademici e corporativi di alto livello: contesti che per loro natura non riescono ad accogliere la domanda di comuni cittadini di appropriarsi degli strumenti di indagine scientifica; strumenti che risultano ormai un requisito fondamentale per legittimare le proprie istanze di cittadini, sempre meno consumatori passivi, e sempre più parte attiva e consapevole di un mondo produttivo nel quale i confini tra strutture pubbliche di governance e strutture corporative si confondono in nome di interessi geopolitici.

Se osserviamo bene, l’attitudine hacking è di fatto una peculiarità evolutiva ed endogena negli esseri biologici. Essa è capacità di adattamento: é acquisire una percezione olistica della realtà circostante. Una realtà che smette di essere una mera realtà attuale (e cioè contingente, a breve termine, come vorrebbe certa politica), ma diventa sempre più una realtà potenziale, cioè possibilista, che permette non solo di prevedere i repentini cambiamenti di un ambiente mutevole (e quindi per sua natura potenzialmente ostile), ma anche di desiderare, ovvero di prevedere e realizzare tra i tanti futuri possibili quelli che sono più allineati con le nostre aspettative di beneficio individuale e collettivo.

Aver compreso questa componente risulta fondamentale se vogliamo cogliere l’approccio tipicamente non-algoritmico e, a volte irrazionale, che caratterizza questa comunità sempre più vasta di individui che chiamiamo biohackers. Un approccio, appunto, non lineare che risulta utile in un presente dove modelli istituzionali ed underground si mescolano in confini sempre meno definiti, e dove vediamo l’emergere di quello che, molto presto, sarà il nuovo (o rinnovato) mercato sul quale gli operatori economici e finanziari potranno agire con un esteso bagaglio tecnologico: quello del corpo e degli ecosistemi naturali.

HACKER E SALUTE

Oggi, la prototipazione a basso costo di dispositivi con applicazioni biologiche e mediche, oltre all’utilizzo pervasivo di Internet in ogni sfera sociale e personale, ha permesso di sviluppare una miriade di dispositivi a livello customer che sono in grado di misurare un numero sempre maggiore di parametri fisiologici del corpo umano. Se osserviamo le politiche di acquisto di tutti i big-players del digitale, da Apple a Google, da Samsung a IBM, dalla Nike a Intel, nei prossimi mesi aumenteranno la linea di prodotti e servizi che prendono nomi quali “smart wearables”, “quantified self” o “digital health”. Le varie declinazioni sono solo sfumature tecniche: ciò che conta è il rischioso ed indesiderato compromesso di mediare ulteriormente la definizione del corpo tramite pipelines semantiche ed algoritimi, che verificano la performance dell’individuo nei più vari contesti sociali e produttivi.

Nel mercato del corpo e degli ecosistemi, le piattaforme proprietarie di sensori biomedici producono dati utili per il calcolo del rischio, tramite la creazione di profili che hanno poi una rilevanza utile per il mondo finanziario. Un’algoritmicizzazione del presente già in atto da diverso tempo, dove tutta una serie di aspetti della vita quotidiana vengono rimediati e messi in relazione calcolabile tra loro da processi tecnologici diffusi ed automatizzati. Algortimi che sono in grado di stabilire relazioni di equivalenza, che prima d’ora risultavano impensabili tra loro, e che tramite nuove metriche determinano la ridefinizione del processo di creazione di valore.

Al di là della bontà epistemologica di queste metriche, è opinione diffusa che questi tentativi di razionalizzare i processi di creazione del valore dovrebbero essere nelle mani della società civile, ed eventualmente essere utilizzati per legittimare etica, azione politica, giustizia, critica: concetti ormai vuoti, deboli ed affossati in un’era post-ideologica.

Infatti, le implicazioni di queste tecnologie non hanno a che fare solo con i processi di produzione della ricchezza, ma piuttosto con il concetto di pubblico, di individuo, e di identità.

Oggi, la definizione di essere umano sta vivendo un momento di transizione molto marcato. Le emozioni e il desiderio come espressioni fondamentali dell’organismo e dell’esistenza umana, si sono spostate dal dominio della filosofia e dell’estetica al centro della teoria dei media. Le nuove tipologie di media e di network si affacciano in tempo reale su di un versante dove la crescente biologizzazione delle tecnologie di comunicazione, rende emozioni e desiderio funzioni di mercato sempre più quantificabili.

Molti sottolineano che stiamo vivendo la deterritorializzazione della nostra intera sfera dei rapporti affettivi ed emozionali.

Un processo che crea un ambiente biomediale dove la base della percezione non è più solo il corpo, ma lo diventa anche la nostra estensione sensoriale mediata da software e hardware nell’ambiente digitale.

Volendo superare gli ovvi manicheismi che questi scenari possono suscitare ai più, va da sé che lo sviluppo di questi territori biomediali dipenderà dalla negoziazione semantica e produttiva che gli hackers, gli artisti e tutte le altre istanze della società civile riusciranno a legittimare come pubblico sempre più diversificato ed esteso. Il mondo hacker può infatti ridefinire quella che è la direzione dei mercati nell’economia globalizzata, riducendo il costo marginale e aumentando l’accesso alla conoscenza, ai mezzi produttivi e di governance, svuotando ulteriori bolle finanziarie tipiche di un’economia “attuale” basata sul desiderio indotto, e generando sempre più un’economia di “potenziale”, ovvero basata sui desideri reali, e sulla produzione di impatto a lungo termine.

Questo sviluppo virtuoso del bio-valore dipende spesso da pratiche considerate illegali, perché quando non infrangono la proprietà intellettuale o le soggiogazioni contrattuali del lavoratore-consumatore, si muovono in spazi grigi della legge. Le cose però cambiano se iniziamo a considerare l’etica hacker non solo evolutiva, ma anche un diritto inalienabile dell’individuo e delle comunità, in quanto caratteristica intrinseca agli ecosistemi dai quali gli esseri umani derivano sé stessi e le risorse materiali che alimentano i loro mercati.

EUGENIO BATTAGLIA*

(*Eugenio Battaglia è un tecnologo e civic hacker, promotore della BioHack Academy del FabLab Roma Makers)

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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