Chissà che tempo faceva il 27 settembre 1908 a Detroit. Forse pioveva, forse c’era il sole, forse il vento soffiava per le strade della città che “put the world on wheels” (mise le ruote al mondo). Chissà a cosa pensava Henry Ford mentre il suo “macinino” usciva dallo stabilimento di Piquette. Chissà se era cosciente di cambiare il mondo producendo nella sua fabbrica la prima vettura utilitaria in serie: la Ford T. Quattro ruote in legno – c’erano ancora le carrozze e se si fossero rotte sarebbe stato più facile trovare un “carrozziere” che un gommista -, ammortizzatori inesistenti e una velocità massima di 72 km all’ora.
Quell’ammasso di ferro e acciaio è stata l’innovazione che ha rivoluzionato il mondo, non solo quello dei trasporti.
Così come il Web ha rivoluzionato il nostro mondo, non solo quello dell’informazione. Bisognerebbe andare a spulciare le cronache dell’epoca, rovistare negli archivi e capire se fu una rivoluzione silenziosa o se provocò levate di scudi, proteste e battaglie sindacali da parte dei maniscalchi. Loro, insieme ai carrozzieri, videro la propria “professionalità” diventare antistorica. Loro, che fino a qualche anno prima facevano correre l’immaginario degli statunitensi verso il West, videro la propria arte diventare di nicchia.
Fu la vera “grande depressione” per una categoria che aveva contribuito alla costruzione degli Stati Uniti. Che fare senza cavalli da ferrare? Pensione o cambiamento? Alcuni avranno scelto la prima opzione, custodi della tradizione e delle storie che avevano reso mitologica la categoria; altri rimasero ancorati al proprio mestiere fino all’ultimo secondo, fino alla fine, fino alla (quasi) scomparsa.
Quando gli storici racconteranno la storia di questi anni forse non si soffermeranno sulle persone, sulle professionalità ma solo sul mezzo, sugli effetti ultimi del cambiamento e salteranno a piè pari la descrizione di questi anni fatti di resistenze, di conservazione.
Questi anni fatti di maniscalchi dell’informazione che anacronisticamente guardano con distacco il cambiamento come se le innovazioni chiedessero il permesso per cambiare il mondo: lo fanno e basta.
Il Web ha cambiato radicalmente la struttura della contemporaneità, ne ha modificato l’economia, le relazioni sociali, mettendo fine a quell’epoca postmoderna iniziata quarant’anni fa. Se il mezzo sta trasformando la società, la pretesa di una narrazione fatta secondo i canoni preesistenti è, a dir poco, antistorica.
Ma cos’è l’innovazione? Secondo Schumpeter l’invenzione è qualcosa di puramente scientifico mentre innovazione è fare qualcosa di nuovo nel sistema economico, un nuovo prodotto, mercato o processo di produzione.
Schumpeter considerava il progresso scientifico come esogeno al sistema economico e non analizza gli effetti di fattori economici e sociali sullo sviluppo scientifico, né le relazioni tra quest’ultimo e l’innovazione.
“Non tutte le innovazioni derivano da invenzioni. L’innovazione è la risposta creativa delle imprese e non la semplice reazione adattiva al mutato contesto economico. L’innovazione avviene tanto nelle piccole quanto nelle grandi imprese, la dimensione non è né necessaria né sufficiente per determinare l’innovazione”.
Se riprendiamo questa definizione dell’economista conservatore austriaco vediamo al tempo stesso una visione positiva della tecnologia ed anche una speranza legata al cambiamento. Ciò che lascia perplessi è che mentre questo cambiamento è già in atto ci sono interi strati che lo combattono attribuendogli, di volta in volta, elementi di pericolo. Banalmente si potrebbe citare Kennedy e il duplice significato della parola “crisi” in cinese – su cui anche i linguisti discordano – oppure si può sorridere e pensare alle parole di Lello Arena verso Massimo Troisi quando, citando Montaigne, gli ricorda che il cambiamento comporta un rischio. Ma non è di cambiamenti che si nutre la storia?
La storia non è fatta di conservazione ma di innovazioni che cambiano le vite delle persone; di idee, di uomini che le perseguono, di folli che rincorrono quello che molti chiamano utopia e che invece è l’essenza stessa dell’umanità. Rifiutarlo è anacronistico ancorché reazionario. Non c’è futuro nella conservazione dello status quo, non c’è utopia in tutto ciò. Nel mondo dell’informazione quest’utopia difficilmente nascerà in seno ai vecchi Comitati di Redazione, alle corporazioni, agli ordini, ma avverrà fuori dagli schemi industriali classici e sederà al tavolo del cambiamento come fece Ford un secolo fa. Così, mentre i maniscalchi continueranno a difendere ciò che resta del loro passato, altri li supereranno e spingeranno il pedale dell’acceleratore verso un punto che si chiama futuro.
Non credo, come scrive Magatti, che viviamo in “un tempo fantasmagorico, dove a prevalere sono le illusioni” bensì credo che manchi un’illusione collettiva che unisca i “quanti” di immaginazione presenti in rete. Un’illusione collettiva che si lasci definitivamente alle spalle i resti di questo consumismo laico di cui non si sente più il bisogno. Un’illusione collettiva che faccia “riscoprire a tutti e specialmente alle giovani generazioni […] la bellezza del fresco profumo di libertà”.
Roma, 28 maggio 2012FRANCESCO PICCININI