Perché Internet non cancella le disuguaglianze

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Appena il 30% di donne in generale e il 17% nel settore tecnologico, e (rispettivamente) 2% e 1% per gli afro-americani, 3% e 2% per gli ispanici. Questo il quadro attuale della forza-lavoro globale di Google, ovviamente rispetto alla stragrande maggioranza di uomini bianchi. Ciò a conferma dell’ampio gap di genere e razza tutt’ora dominante nell’azienda di Mountain View (analogo il trend nell’intera industria hi-tech). Un’assenza di diversità che si fa ancora più netta nella leadership mondiale di Big G: il 21% di donne, contro il 79% di uomini, ricopre qualche carica dirigenziale, e rispetto agli Usa ciò riguarda solo l’1,5% di afro-americani e l’1% di ispanici.

L’inattesa rivelazione di questi dati, avvenuta mercoledì scorso nel corso del telegiornale serale della PBS, la rete TV pubblica statunitense, è stata preceduta da accese discussioni interne, ha spiegato Laszlo Bock, dirigente di Google, e alla fine «pur sapendo che non sono certo cifre edificanti né che ci facciamo bella figura… abbiamo deciso di fare la cosa giusta: renderle pubbliche».

Nella speranza di spingere allo stesso passo altre aziende del settore, aggiungono i conduttori TV, e portare così all’attenzione generale questi squilibri occupazionali e imprenditoriali, provando a porvi rimedio quanto prima.

Pur se purtroppo simili disparità non sono certo una novità in ambito industriale, appaiono ancora più pesanti e discriminatorie in un settore, quello dell’hi-tech e di Internet, che per definizione era destinato a livellare in positivo le differenze e a creare pari opportunità per tutti. D’altronde la diversità (anche) sul lavoro rafforza la democrazia, insistono gli esperti. E quale miglior veicolo della rete – a detta dei tanti pseudo-profeti del digitale e dei social, ieri come oggi – per garantire democrazia e benessere all’intero pianeta?

Invece quel che emerge con sempre maggior chiarezza, a 25 anni dall’arrivo del Web per le masse, è che la “rivoluzione” digitale innesca disuguaglianze sociali tipiche del mondo reale, anzi le acuisce – come confermano quelle cifre diffuse da Google e vari studi che, per esempio, fissano al 20% la quota di blogger scientifici curati da donne, mentre anche a livello di college Usa il gap di genere è lampante, per non parlare della minima presenza online di donne di ceto o reddito non elevato.

Un quadro preoccupante che sta finalmente venendo alla luce con forza, grazie anche a nuovi interventi pubblici di addetti ai lavori del made in Usa, donne in primo luogo. Niente a che fare con il Neo-Luddismo di fine anni ’90 o le barricate anti-tecnologia, bensì critiche motivate e dall’interno che non mancano di riprendere l’approccio della cosidetta ‘Net critique’ e lo scetticismo di attenti ‘media critic’, pur se con sfumature diverse, tra cui Morozov, Lovink, Keen. In questa nuova ondata, da non perdere ad esempio le lucide analisi di Astra Taylor, regista e attivista mediatica con base a New York, a partire dal lungo pezzo apparso lo scorso aprile su TomDispatch e poi ripreso da Mother Jones.

Esplicitamente intitolato “Perché la trasparenza di Internet favorisce la misoginia”, l’articolo sostiene fra l’altro:

«Pur creando spazio per una molteplicità di voci, Internet tende anche a riflettere e spesso amplificare in modo sorprendente le ingiustizie del mondo reale».

«Navigando sul Web attuale tenendo un occhio alla discriminazione di genere, ne ricaviamo la concreta impressione di dove sta andando Internet, e non è certo verso l’uguaglianza o la democrazia».

Altri esempi: Instagram è nato nel 2010 ma solo l’anno scorso ha assunto il primo ingegnere donna, mentre in Usa la percentuale di donne laureate in informatica nel 2008 era scesa al 18%, dopo una breve impennata dal 14% al 37% registrata negli anni 1970-85. (Viene a mente l’ostracismo subito in vita da Ada Lovelace all’inizio del 1800, pur se oggi riconosciuta come il primo programmatore informatico in assoluto) .

Nonostante le belle apparenze odierne, insiste Taylor, «la filosofia della trasparenza di Internet finisce per razionalizzare i propri fallimenti, sottolineando l’incapacità della gente a partecipare come fosse una loro scelta, e innalzando il mito della meritocrazia per accusarne la mancanza di competenza o volontà come causa diretta del gap nella presenza online».

Rincara la dose, concentrandosi sui social media e sui giovani neo-miliardari che li manovrano, il libro di fine 2013 Status Update, in cui Alice Marwick descrive in dettaglio la scena del Web 2.0 emersa a San Francisco e nella Silicon Valley tra il 2007 e il 2010. Basta citarne una battuta: «Piattaforme quali YouTube, Twitter e Facebook promettevano una nuova cultura online basata sulla partecipazione … ma invece hanno trasformato gli utenti in s/oggetti del marketing e di auto-promozione, consentendo altresì alle aziende hi-tech di violare la privacy individuale e dare priorità al guadagno rispetto alla partecipazione».

Di certo le cose non sono migliorate nei pochi anni trascorsi da quest’indagine sociologica sul campo, di per sé non tremendamente negativa ma puntuale e acuta, da dove emerge un futuro dei social media deciso a calcare le orme di quel Web 2.0 che «…anziché portare alla rivoluzione culturale, non ha fatto altro che rafforzare le disuguaglianze e le stratificazioni sociali tradizionali, basate su differenze di razza, classe e genere».

Parimenti evidente è che, pur essendo aperta a tutti (giustamente), oggi la Rete è tutt’altro dall’eden non commerciale e comunitario che certi cyber-utopisti della prima ora promettevano. Percorso questo, a scanso di equivoci, comune a ogni sviluppo tecnologico moderno, dalla locomotiva al telegrafo: una volta superata la prima fase di idealismo ed entusiasmo, la “rivoluzione delle masse” rientra nei ranghi e restano pochi pescecani a spartirsi la torta del potere e delle finanze in nome del liberismo galoppante – nel nostro caso, lasciando al “popolino” l’illusione di una “reputazione” online da conquistare e mantenere a denti stretti vita natural durante.

Temi questi che vengono ulteriormente ampliati nel volume appena pubblicato dalla stessa Astra Taylor, The People’s Platform, il cui messaggio di fondo è ancora più cristallino: «Davanti all’odierno riassestamento dei ruoli del potere online, tutt’altro che una rivoluzione, … è possibile far meglio. Di per sé, la tecnologia non potrà mai dar vita a quella cultura democratica capace di sostenere una diversità di voci e opere di valore duraturo. Se vogliamo che Internet sia davvero la piattaforma del popolo, spetta a noi fare in modo che ciò accada».

In definitiva, è vero che trattasi di questioni strutturali ed economiche non da poco, temi complessi (qui soltanto accennate) e di non facile soluzione, né può delinearsi un quadro univoco per i miliardi di utenti con culture e background anche assai lontani tra loro. Sta di fatto però che il digitale non è affatto un pianeta distinto dalla “vita reale”, né va dipinto come tale, dove i problemi sociali (e le marginalizzazioni) possano essere separati e/o ignorati. La Rete è stata costruita ed è gestita da esseri umani, e quindi «siamo di fronte a una sfida fondamentale per attuare questa forza democratizzante, ben oltre ogni retorica dello sharing», come Taylor conclude un’estesa intervista su Salon.com.

Soprattutto nel nostro ambito occidentale, è dunque importante riconquistare la serendipità perduta per una navigazione online che stimoli il cosmopolitismo concreto, e non solo quello illusorio, come lo è impegnarsi in prima persona a tutela della privacy e contro la sorveglianza diffusa, dentro e fuori Internet.

Ma per far sì che quest’ultima si sviluppi in maniera davvero paritaria e condivisa, altrettanto cruciale è darsi da fare per smascherare e prendere consapevolezza di questi gap di genere, razza e classe sociale veicolati dal digitale odierno. Passo obbligato per riappropriarci della cultura popolare, dei rapporti umani e dei beni comuni che le élite vecchie e nuove vorrebbero invece accaparrarsi e recintare. Per l’ennesima volta.

Bernardo Parrella06 giugno 2014Santa Fe, in New Mexico, Usa

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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