Questa mattina ho letto l’ennesimo articolo su come la tecnologia sottrarrebbe posti di lavoro e creerebbe disoccupazione.
È un argomento che ci accompagnerà per diversi anni e che, insieme a privacy e sicurezza, è al centro del dibattito sull’”era digitale” o sulla nuova rivoluzione industriale, come il mio caro amico Luciano Floridi – Professore di Filosofia ed etica dell’informazione – Direttore del Research Oxford Internet Institute presso l’Università di Oxford – ha descritto molto bene nel suo libro intitolato The 4th revolution (La quarta rivoluzione)
Come spesso accade nel nostro paese, il dibattito si traduce in sostenitori, quelli a favore e quelli contro. Giornalisti famosi, economisti nonché imprenditori brillanti e di successo attaccano il mondo del digitale perché lo considerano uno strumento che distrugge posti di lavoro; e gli elenchi dei lavori che saranno svolti da macchine al posto dell’uomo vengono pubblicati un po’ ovunque, ogni settimana.
Personalmente non mi spaventa vedere macchine svolgere il lavoro degli uomini, piuttosto vedere uomini lavorare come macchine come si è verificato nelle precedenti rivoluzioni industriali.
Qualche anno fa ho sentito un imprenditore italiano di successo nel corso di un’intervista televisiva sostenere questa tesi e utilizzare il “Telepass” come esempio: “un’innovazione tecnologica che ha tolto il lavoro agli esattori del pedaggio”. Secondo questa logica, l’automobile ha tolto il lavoro ai costruttori di carrozze, il pneumatico ai maniscalchi che ferravano i cavalli e così via, gli esempi potrebbero essere infiniti.
Uno studio della McKinsey pubblicato nel 2011 ha illustrato come per ogni posto di lavoro perso, la tecnologia crea 2,6 nuovi posti di lavoro.
Quindi il lavoro non si perde ma si trasforma.
È vero, tuttavia, che mentre la perdita si verifica in modo esponenziale la creazione di nuovi posti di lavoro spesso segue piuttosto una crescita lineare, ma nel medio e lungo termine il saldo è positivo.
Come affermato da un articolo pubblicato l’8 febbraio da “La Stampa”, nel 2020 mancheranno un milione di professionisti del digitale, mentre altre fonti calcolano che saranno addirittura 2 milioni.
Secondo Alexis Ringwald co-fondatore e amministratore delegato di Learn Up, il 65% degli studenti di oggi svolgerà un lavoro che non è stato ancora inventato.
L’economia digitale non è semplicemente l’era industriale degli “steroidi tecnologici”.
Circa mezzo milione di anni fa, è comparso l’uomo moderno. Circa dodici mila anni fa, i nostri antenati cacciavano il pranzo nel mezzo della savana, indossando pelli di animali.
I nostri cervelli sono tarati per essere mobili, essere sociali, essere giudicati sui nostri risultati, prendere decisioni, essere creativi, avere un’esistenza integrata di lavoro e vita. E l’era industriale ha avuto implicazioni che andavano contro la nostra vera natura. Abbiamo cessato di essere mobili. C’è stato detto di presentarci a lavoro in fabbrica. Siamo stati pagati per il nostro tempo invece che per la nostra produttività. Siamo stati scoraggiati dall’essere sociali. Eravamo parti della macchina. Creatività e processo decisionale sono stati criticati. Naturalmente abbiamo odiato tale lavoro ed elaborato il concetto dell’equilibrio lavoro-vita.
Rendere l’innovazione accessibile a tutti indipendentemente da dove ci si sieda all’interno organizzazione indica un livello di accessibilità che non è mai esistito prima. Non è necessario essere un amministratore delegato per avere un impatto sui propri clienti e sulla propria azienda.
Per queste ragioni, personalmente ritengo che l’era digitale non rappresenta la fine dell’umanità, ma può essere il ritorno all’umanità se manteniamo sempre le persone, la qualità della vita e la sostenibilità del nostro pianeta al centro di ogni sviluppo tecnologico.