Perché per fare startup devi saperne più di filosofia che di impresa

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Ho già scritto qui un articolo in cui sostenevo la possibilità di nuovi modelli economici fondati sui fablab. Riporto alcuni passaggi che saranno utili.

“Proviamo allora a immaginare un modello cooperativo […] in cui i prodotti che acquistiamo sono protetti da licenze open […], il loro sviluppo fa capo a fondazioni […], produzione e commercializzazione si basano su laboratori distribuiti […] e su mega-portali internet”.

Chi mi conosce sa del mio interesse nel far incontrare il mondo dei makers con l’impresa.

“Se davvero volessimo aiutare l’ecosistema innovativo italiano, e lasciare da parte i purismi, i fablab dovrebbero aprirsi alle PMI. Per sviluppare i loro prototipi, mettendoli a disposizione di hacker in grado di smontarli e testarli davvero. Allo stesso modo, le PMI dovrebbero aprirsi al mondo dell’open manufacturing, abbandonando timori e prudenze che portano a chiudersi in se stessi risultando perdenti di fronte a una concorrenza internazionale sempre più agguerrita”.

Credits: jamesyang.com

Il modello così tratteggiato è stato rivisto e continuamente sviluppato grazie al confronto con alcuni dei protagonisti del mondo maker italiano. Finisco con le auto-citazioni, ed entro nel vivo. Stanno comparendo sempre più siti di open design, per lo più sulla logica del contest o all’interno del filone crowdfunding. Io stesso, l’anno scorso, avevo cercato di costruire un sito intorno alle mie intuizioni ma non avevo trovato finanziatori, né grande aiuto (salvo i bravissimi ragazzi di 4Sigma, che ringrazio pubblicamente).

Per un insieme di circostanze fortunate, sono venuto a conoscenza di un progetto che sembrava raccogliere le mie idee: Thinkalize. Ho letto il loro business plan e ho spedito quasi immediatamente a Nicoletta Grumelli, la fondatrice, delle slide del mio business plan, quasi identico, dicendole: “perché non proviamo a farlo insieme?” Mi aspettavo da Nicoletta la risposta più comune in questi casi, perché in fondo l’ho ricevuta da un altro portale: “Noi facciamo già quello che dici” – implicitamente, non ci serviresti a nulla, grazie per averci scritto.

Problema che ho contribuito io stesso a creare, non essendo né un economista certificato/laureato, né un programmatore informatico.

Nicoletta invece è stata straordinariamente aperta e disponibile, e mi ha proposto di incontrarci per discutere di un’eventuale collaborazione. Perché Nicoletta, come me, vuole cambiare il mondo. Nel frattempo, avevo iniziato un dialogo via email con Marco Lombardo, conosciuto attraverso il Maker Contest indetto da Make in Italy: indovinate di che cosa parlavamo? Di un sito di aggregazione di progetti open source. Il suo progetto, un social network per makers, mi pareva utile per il mondo maker, per scambiare informazioni, fare networking e attivare collaborazione. Parlavo con due persone diverse di uno stesso progetto: ho allora pensato che avremmo dovuto tutti sederci intorno a un tavolo, e magari berci un buon cocktail.

Nicoletta ha un’azienda, un logo, un nome, Marco ha capacità tecniche e io… Io gioco da un po’ a immaginare modelli di business per la nuova manifattura e provo a far incontrare idee e investitori.

Siamo complementari, potremmo collaborare: ma siamo anche in Italia, laddove nessuno si fida dell’altro. Staremo facendo la scelta giusta?

Pochi incontri e Thinkalize è stata arricchita dal progetto di Marco, portando a una beta che si è costruita in tempo reale, tra Milano e Roma. Il lavoro di setting è durato per tutto l’autunno e l’inverno. Abbiamo finalmente deciso di uscire pubblicamente il 9 marzo, con una fase di beta-testing che ci serve per migliorare l’usabilità. Troverete nel sito molte idee di cui ho scritto negli anni, si tratta di una piattaforma che cerca di aiutare le imprese a innovare i propri prodotti e gli innovatori a co-creare.

Non abbiamo ancora definito formalmente la nostra collaborazione, al momento ci interessano due cose: partire e dimostrarci che sappiamo lavorare insieme, e l’unico modo è ottenere un riscontro dal mercato.

Sono molto emozionato, forse come non mi succedeva da un po’. Sento la pressione di aver ricevuto interesse da persone importanti, cui ho già presentato l’idea del sito e, soprattutto, di dovermi confrontare con la realtà: il mercato, le metriche, la fiducia dei makers.

Ma ciò che conta è che sto passando dal pensare e divulgare al realizzare: ho capito che fare il teorico non mi basta più, e che è arrivato il momento di sporcarsi le mani. E l’unico modo per farlo è stato cooperare con degli sconosciuti. Ci ho creduto vedendo il sorriso, la tenacia e la leadership di Nicoletta, la passione per l’innovazione e la professionalità di Marco.

Se credi nelle tue idee, sei disposto a metterle in pratica con chiunque le condivida: si diventa amici poi.

In questi mesi sto facendo un’esperienza davvero efficace, una formazione superiore al periodo di ricerca post universitaria. Per partire col proprio business bisogna scegliere crudelmente, darsi delle priorità, eliminare il superfluo, conservare però la struttura, avendo uno sguardo al tempo stesso di insieme e di estremo dettaglio (per esempio il pulsante “save” non si legge).

Un esercizio di ecologia della complessità che, se avessi potuto sperimentarlo al liceo, mi avrebbe consentito probabilmente di finire il mio dottorato.

Rispetto alla filosofia, cambia completamente il concetto di temporalità; la ricerca filosofica è un piacere fine a se stesso, ogni ora spesa in letture e riflessioni ci arricchisce, incuriosisce, invita ad aprire nuove strade (per avere un’idea, leggete Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges).

La ricerca di soluzioni in ambito imprenditoriale è invece una gara contro il tempo, costante, a tratti logorante.

Devi essere più veloce dei soldi che stai spendendo, dei concorrenti, dei consumatori, prevedendo quello che davvero vogliono. E devi essere veloce a lungo, è una maratona da professionisti, e la maggior parte di noi non ha il fiato.

La lezione comunque più importante che sto imparando è che i problemi emergono quando si strutturano in dettaglio i progetti che sviluppano le nostre intuizioni; in ambiti di frontiera e nella sharing economy è impossibile prevedere tutte le possibili relazioni tra gli utenti, i comportamenti scorretti, le tutele da adottare.

Il mondo delle startup sa costruire nuova conoscenza più di molta ricerca universitaria: abilita processi che richiedono analisi e lo fanno in seguito a molto lavoro teorico. Thinkalize sta interrogando la realtà economica chiedendole se è pronta ad adottare un nuovo paradigma produttivo: le risposte che ricaveremo varranno più di molti calcoli astratti e simulazioni.

Il mercato, per quanto imperfetto, è sincero: se il tuo prodotto è mal progettato non ha successo, ed è difficile usare delle scuse per giustificare il proprio fallimento.

Occorre invece accettarlo ed esaminarlo. Un passaggio rischioso per tutti, ma oggi, soprattutto in Italia, il peggior rischio è non fare nulla per paura di sbagliare.

Mentre si può mal interpretare un paper, si può appoggiare un’idea perché ci affascina, perché di moda. In certi campi del sapere non c’è modo di cancellare l’erba infestante delle idee seducenti ma false, perché si è valutati solo da un piccolo mondo di pari che può essere benissimo vittima di un’allucinazione intellettuale collettiva, non dovendo confrontarsi con la realtà.

Ci possono volere anni per dimostrare che alcuni assunti macro-economici erano scorretti, purtroppo nel frattempo chi li sosteneva ha comunque fatto carriera e oggi occupa posizioni che gli consentono di difendersi, a detrimento dell’onestà intellettuale. Il tempo che passa può essere usato come scusa – “sono cambiati i valori di alcune variabili del modello”, la verifica diventa molto difficile. Thomas Kuhn ha avuto il merito di porre l’attenzione sulla difesa conservativa del paradigma di fronte ad anomalie nelle osservazioni attraverso ipotesi ad hoc e stravolgimenti linguistici.

Nel caso di una startup, pochi anni sono sufficienti a spegnere i sogni e a zittire (anche solo momentaneamente) idee rivelatesi inefficaci. Il progresso generato dalle imprese è molto solido: nel caso della bolla dot.com molte idee non erano mature (venditori di vestiti, distributori di alimentari, valute digitali) ma oggi sono tornate e funzionano. I modi di realizzare un e-commerce sono cambiati e difficilmente si tornerà indietro: sono acquisiti, possono al più migliorare.

I più importanti problemi con cui ci siamo scontrati riguardano la gestione e la tutela della proprietà intellettuale, per cui stiamo lavorando con Andrea Zappalaglio, giovane ricercatore a Oxford. Ma provare a costruire un incubatore diffuso pone comunque innumerevoli sfide: quando abbiamo parlato con una banca, che speriamo diventi nostro partner, ci siamo scontrati con le procedure e le normative italiane. Rispondere ai loro dubbi e alle loro richieste di chiarimento è stato uno dei momenti più difficili, ma ci ha spinto a inventare nuove soluzioni che, peraltro, si potrebbero rivelare molto efficaci.

Come ci ha insegnato la fisica del Novecento, la realtà è molto più affascinante e imprevedibile di quanto la nostra immaginazione possa ipotizzare: ecco perché, presto o tardi, dobbiamo affrontarla.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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