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Perché questa volta sto dalla parte dei tassisti e delle regole chiare

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Il caso di UberPop è stato preso inizialmente come un esempio di contrasto alla sharing economy, un momento in cui il regolatore è stato chiamato a rimediare a un contrasto normativo. Da molti l’intervento dei tassisti durante il Wired Next è stato visto come l’ennesimo ripetersi delle reazioni luddiste.

Ho la netta sensazione che abbiamo abbondantemente perso di vista la cosa più importante: le reazioni a UberPop sono una cartina di tornasole per valutare il nostro rapporto con l’innovazione, per capire come il Paese sia in grado di pensare il proprio futuro.

Purtroppo l’opinione pubblica italiana non ha ancora gli strumenti per trattare adeguatamente tematiche di innovazione: si divide immancabilmente tra entusiasti e conservatori. In parte incidono le dinamiche di comunicazione, a loro volta spinte più da logiche commerciali che teoriche: i titoli sono pensati per i click, per attirare gli utenti dei social network, gli articoli sono brevi perché letti on-line.

Ho già avuto modo di denunciare il narcisismo dei tanti blogger che ottengono dalla rete la propria visibilità – e, probabilmente, io stesso sono vittima della fame da like.

La combinazione di questi fattori, e il fatto che spesso il successo di una “voce” dipende da un’identità facilmente riconoscibile, quindi più estrema della realtà, tende a polarizzare tutti i dibattiti.

Nel caso di UberPop, ho già espresso sul gruppo di OuiShare le mie perplessità, che riassumo qui rapidamente. Doverosa premessa: quando Giavazzi chiedeva di liberalizzare i taxi ero dalla sua parte, e ho sofferto quando Bersani dovette rinunciare alla riforma. Oggi, invece, mi tocca essere dalla parte dei tassisti.

UberPop, applicazione che consente, sostanzialmente, a chiunque di essere tassista, è un invito all’abusivismo.

L’idea che l’applicazione in questione si limiti a utilizzare il principio del carpooling non regge di fronte a una visione un po’ più cinica della realtà, per cui tanti disoccupati potrebbero mettersi in macchina per tirare su un minimo reddito. E’ un discorso solo di regole?

Trovo le soluzioni dall’assessore Maran decisamente interessanti: una regolamentazione degli NCC aumenta leggermente l’offerta di mezzi di trasporto (visto che hanno prezzi tendenzialmente superiori ai taxi), un controllo del carpooling impedisce fenomeni di abusivismo. Peccato che non siano state apprezzate né dai conservatori, né dai rivoluzionari.

Nel frattempo, ci si è schierati in favore di Uber perché costa meno e i tassisti, si sa, sono dei privilegiati: questo almeno deduco dai commenti in rete. Due ottime ragioni, ma che non reggono a un esame più ampio: anche una maglietta cucita in Bangladesh può costare meno di un’equivalente italiana ma, nel frattempo, l’hanno prodotta in condizioni lavorative disumane rovinando l’ambiente.

Sul fatto che i tassisti sfruttino una rendita di posizione siamo tutti d’accordo: pensiamo a come ridurla garantendo loro, comunque, la sopravvivenza. Sono arroganti, ma sono lavoratori che potrebbero trovarsi disoccupati – e credo che i problemi dei lavoratori (tutti) dovrebbero essere trattati con maggiori empatia e rispetto. Davvero non ci accorgiamo del rischio di innescare una lotta tra poveri?

Diciamo che gli entusiasti hanno peccato, quantomeno, di ingenuità. Come si può pensare che l’introduzione di un’applicazione che liberalizza il trasporto di viaggiatori, senza alcuna modifica legislativa, non venga osteggiata da una categoria rigidamente regolamentata?

Dove si recuperano le risorse per rimborsare i tassisti che vedono scomparire il valore delle proprie licenze? Da Uber? Ho letto che in Italia ci sarebbero 40.000 licenze, con un valore medio di 150.000 euro (e punte di 300.000): un dimezzamento del loro valore porta a 3 miliardi di perdita secca che vanno trovati da qualche parte – dove? In quanto tempo?

Mi piacerebbe sentir parlare di questi temi: sviluppiamo la sharing economy nel rispetto delle leggi e architettando soluzioni economiche sensate. Ovvero, ragioniamo guidati da dati ed evidenze scientifiche.

Invece, ho visto difendere un approccio che, da regolatore, non mi piace affatto: innoviamo infrangendo le regole, starà al policy maker adattarle a noi rivoluzionari.

Basta cercare in altri campi esempi un po’ forti per capire che l’approccio è errato. Nell’abusivismo edilizio, negli alimentari, negli stupefacenti, nell’innovazione finanziaria, che consente di fregare le persone con trucchi talvolta non compresi nemmeno dalle autorità di vigilanza.

Non sono un bacchettone: so bene che molta innovazione è dirompente e che talvolta conviene prendersi dei rischi, se ne vale la pena – appoggio in pieno la sperimentazione sugli Ogm, per dire.

Eppure… rimango stupito di fronte a commenti del tipo “i tassisti sono solo l’inizio, l’innovazione farà saltare tutte le categorie protette”: perniciosi sentimenti di rivalsa di chi forse ha subito la tecnologia – penso ai giornalisti, per esempio.

E penso poi alle librerie che chiudono per la concorrenza di Amazon. Io consumatore credo davvero che gli algoritmi che mi suggeriscono che cosa comprare siano meglio dei consigli di un libraio esperto che fa il suo lavoro con passione da trent’anni? Siano meglio dell’incontro di un altro lettore con cui scambiare due chiacchiere, degli eventi di presentazione dei libri, dove si incontra dal vero l’autore che ci fa sognare e incuriosire? Per risparmiare pochi euro impoverisco culturalmente il mio paese: non una scelta lungimirante.

Ragioniamo da consumatori e ci dimentichiamo dei lavoratori, senza accorgerci delle perdite che il sistema nel suo complesso rischia di subire se non stiamo all’erta. Tornando ai giornalisti, anch’essi privilegiati, oggi soffrono la concorrenza della rete e noi ci troviamo a leggere articoli di qualità sempre più imbarazzante, scritti di corsa da precari.

Se dovessi provare a concludere, penso che chi porta innovazione dovrebbe cercare di portare anche spunti per regolarla, contribuendo a un dibattito informato: un minimo di etica della responsabilità, insomma. Solo così è possibile creare piattaforme di negoziazione tra “vecchio” e “nuovo”, in cui si affrontino in modo collaborativo i problemi cercando soluzioni praticabili.

Viviamo in un sistema complesso: l’innovatore non deve inutilmente aumentare l’entropia. L’avverbio non è scelto a caso: qualunque innovazione tecnologica provoca iniziali perdite di lavoro e tensioni sociali, e non mi sognerei mai di caldeggiare i conservatori per questa ragione. Ma proprio perché l’innovazione è, sovente, distruttiva, non aggiungiamo inutili problemi: non aumentiamo il brusio della rete, non creiamo sacche di scontenti più o meno arrabbiati e tifoserie, non spaventiamo le persone, che poi si cercano informazioni male e alimentano il business delle leggende metropolitane.

Anche gli innovatori devono imparare a comunicare, con un po’ di umiltà e chiarezza in più e qualche parola storpiata dall’inglese in meno.

Milano, 27 maggio 2014ANDREA DANIELLI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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