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Perché servono i Fablab per rilanciare la manifattura italiana

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“L’apertura di nuovi spazi imprenditoriali è l’economia digitale. Dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico. Dall’elaborazione intelligente di grandi masse di dati agli applicativi basati sulla localizzazione geografica. Dallo sviluppo di strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione”. Così inizia il Rapporto sulla situazione sociale del paese 2013 elaborato dal Censis: per uscire da questa crisi, le imprese devono puntare sulle nuove tecnologie, sulla digitalizzazione, sulla connettitività dei comportamenti individuali e collettivi. Analizzando alcuni dati emersi dal Rapporto Censis ci si rende conto che il paese sta mutando pelle, che gli strumenti digitali hanno modificato il capitale umano, l’interazione delle persone e la loro stessa socialità. In ambito di lavoro, sono riusciti a cambiare tutti i processi organizzativi ed il 26,1% dei lavoratori italiani negli ultimi 3 anni è stato interessato da un cambiamento tecnologico, dato che cresce più si sale nella piramide professionale.

Il lavoro dunque assume aspetti differenti che si ripercuotono pesantemente sull’economia del paese che segue, o meglio dovrebbe seguire, orizzonti differenti: le professioni di tipo tecnico-scientifico, informatica, programmazione e comunicazione, sono aumentate del 2,3% mentre purtroppo continua a calare il numero di imprese artigiane, soprattutto gestite da giovani.

L’Italia è un paese a forte vocazione manifatturiera con il 10% di imprese sul totale che ottengono una enorme spinta propulsiva dall’export, con dati confortanti per i prossimi anni. Il Made in Italy è il nostro vanto e l’export di queste produzioni tocca quote fondamentali del nostro PIL (circa il 30%) con oltre 390 miliardi di euro e picchi importanti nel settore alimentare e nel sistema moda. La fa da padrone il macro-settore meccanica-elettronica con oltre 190 miliardi di euro di quota export ed in maglia rosa sono le produzioni hi-tech e medium hi-tech che hanno visto dal 2009 al 2012 innalzare la loro quota export di ben 33 punti percentuali.

Ciò ha portato ad interessanti isole di crescita, i dati dimostrano infatti l’espansione in alcuni comparti, fra tutti: knowledge intensive e techology intensive.

Anche per quanto riguarda il settore dei servizi, le cui imprese sono passate dal 73% al 76% del totale, gli incrementi maggiori si registrano in consulenza gestionale ed informatica, in ricerca e sviluppo, nelle telecomunicazioni ed ovviamente nell’area di sviluppo software.

Dunque possiamo dire che la crescita tocca il nostro Paese in aree che hanno investito in passato o che stanno investendo in innovazione, irrorando di digitale le proprie attività, produzioni, servizi e formando in tal senso il proprio capitale umano.

Le imprese che stanno emergendo dalla palude della peggiore crisi di sempre sono quelle che operano nel settore turistico, puntando sulla valorizzazione del patrimonio storico-artistico attraverso innovazioni di processo ed intercettando bisogni ove effettivamente presenti.

Oltre a tale tipologia sono coinvolte da flussi positivi anche quelle aziende del manifatturiero con una forte connotazione tecnologica e tutte quelle attività che hanno saputo interpretare i fabbisogni dei mercati stranieri investendo sulla propria digitalizzazione e su differenti tipologie di comunicazione interattiva. Produzioni italiane di qualità ben comunicate.

Sarà questa la nostra forza: digitalizzare e ben comunicare la nostra tradizione, il nostro saper fare, il nostro patrimonio storico-artistico.

La crescita delle imprese passa però da un processo culturale che miri ad elevare le competenze, ad una maggiore cura del capitale umano ed a coinvolgere le nuove generazioni facendo emergere la loro propensione all’imprenditorialità, di certo negli ultimi anni fortemente sopita. Saranno quindi i futuri governi a dover investire in “contaminazione” per stimolare nuove fasce di persone ad acquisire un ruolo più attivo nei personali percorsi di crescita. Le imprese, d’altro canto, devono risolvere due problemi culturali: un complesso di inferiorità latente nei confronti delle economia più avanzate (ieri) ed emergenti (oggi), comprendendo che la nostra tipologia e natura produttiva è differente quanto potente rispetto a mercati che crescono verso i nostri standard.

Oltre ciò è necessario porre fine ad un “declinismo” spinto che frena gli investimenti ed accentua i timori, certe volte purtroppo fondati, bloccando l’economia.

Tanto andrà certamente fatto per un risanamento economico, partendo dai rapporti con il sistema bancario che ha ulteriormente ridotto il credito verso le imprese del 4% l’ultimo anno, proseguendo con i rapporti con la pubblica amministrazione e la burocrazia in generale che impegna risorse e nostro tempo fondamentale (da una nostra ricerca ogni imprenditore impegna 47 giorni all’anno in pratiche burocratiche e 28 giorni di un suo dipendente/consulente). Non vogliamo però affrontare la miriade di problemi che investono oggi il sistema delle imprese italiano quanto terminare questa disamina sull’ultimo rapporto Censis, analizzando la necessaria spinta d’innovazione che il nostro paese deve affrontare per emergere dall’impasse e scuotere l’economia. Nel 2009 (e purtroppo questi dati non sono migliorati) le imprese italiane investivano in innovazione soltanto lo 0,68% del PIL, contro una media europea del 1,25%. Avendo le nostre imprese, in media, un limitato contenuto tecnologico con bassi investimenti in ricerca e sviluppo, fondi o investitori privati, non si avvicinano alla nostra economia. Ne è esempio il venture capital che in Italia nel 2012 copre una quota pari solo allo 0,004% del PIL, un quinto della media europea e dieci volte meno dei paesi virtuosi del Nord Europa. Ragionando per assurdo, raddoppiando la nostra spesa in innovazione potremmo ottenere dunque una quota di capitale di investimento 5 volte superiore a ciò che otteniamo oggi. Sappiamo bene che si tratta di cifre che non tengono conto di molti aspetti e di una diversa strutturazione del sistema creditizio italiano, ma è anche vero che da qualche parte bisogna iniziare.L’Italia ha bisogno di chiarezza, di trasparenza, di regole efficaci applicate in modo corretto ed equo. La struttura economica del paese dev’esser resa più competitiva e capace di agganciare nuovi trend. Dev’esser definito un piano organico di politica industriale che renda chiaro quali siano le filiere su cui puntare e in quali ambiti incentivare l’innovazione e che quindi individui una mappa esatta delle azioni a sostegno della modernizzazione e innovazione del sistema produttivo. Alle imprese non occorrono soltanto più fondi e nemmeno l’abbattimento del rischio, quanto la certezza di poter lavorare in un paese ad economia sana con possibilità di sviluppo ed una chiara vision. Senza trattamenti particolari ma che basi davvero tutto sulle effettive competenze e sulla valorizzazione dei virtuosismi.

Il nostro paese può ripartire da ciò che ha, la sua cultura inestimabile ed il suo patrimonio storico-artistico, le sue tradizioni e la manifattura, il made in Italy.

La rivalutazione dell’artigianato rappresenta un punto focale e la digitalizzazione a supporto dell’economia tradizionale può rappresentare per noi un elemento fondante la rinascita economica. Purtroppo però il numero di imprese artigiane fra il 2007 e il 2012 è diminuito di 50.000 unità e di ulteriori 28 mila nel 2013. Manca il ricambio generazionale. Le imprese under 30 sono passate dall’8,1% nel 2007 al 6,5% nel 2012 ed abbiamo dunque necessità di preparare all’imprenditorialità, fare emergere quella propensione che una ricerca di CNA evidenzia, non è così debole. Circa il 15% dei giovani in età scolare è un potenziale imprenditore ma soltanto una percentuale residuale lo diventa poi davvero e spesso per ripiego. Mestieri in via d’estinzione, quanto l’economia tradizionale, attendono un importante innesto di digitale per rivivere e riportare a lustro le nostre tradizioni manifatturiere; le scuole e le università in questo hanno ed avranno un ruolo sempre più importante. CNA, ed i giovani imprenditori che rappresentiamo, hanno avviato, e tenteranno sempre più, un processo di contaminazione che mira a riportare l’artigianalità, ed il saper fare, al centro della scena in una forte commistione con le attività e gli attori del digitale, della manifattura hi-tech ed innovativa, dei FabLab e degli spazi di condivisione, oltre ovviamente alle istituzioni attente ed attive ai processi di rinnovamento della nostra economia. Perché crediamo che da qualche parte bisognerà pur partire ed il capitale umano, a nostro avviso, è la ricchezza di questa nazione.

Cremona, 10 febbraio 2014Stefania Milo

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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