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Perché solo l’open source può salvarci da auto e frigo intelligenti

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Dopo circa un decennio di pronostici e teorie stiamo assistendo in qualche modo alla messa in pratica del concetto di “Internet of Things“, nato al MIT come visione di un futuro in cui ogni oggetto è nodo di una rete e interagisce con gli altri oggetti. Si è sempre detto che gli ostacoli tecnici per questa interconnessione risiedevano nella necessità di tre cose:

  1. connettività wireless (anche passiva, sottoforma di RFID),
  2. uno spazio di indirizzamento più ampio (IPv6, con il suo elevato numero di indirizzi pro capite)
  3. e infine la definizione di protocolli e standard per la trasmissione di dati tra gli oggetti indipendentemente dai produttori o addirittura dalle specifiche funzioni.

Di queste tre cose si è avverata solo la prima, ed è stata sufficiente perché nascesse il filone capostipite dei dispositivi elettronici Internet-enabled: lo smartphone.

1. CENTRALIZZAZIONE E CHIUSURA

Qui Apple ha una grossa responsabilità: se da un lato è stata lungimirante rispetto al prodotto smartphone, lo è stata anche rispetto al difficilmente prevedibile successo di un oggetto blindato, che limita le possibilità dell’utente in favore di un’autoritaria centralizzazione. L’acquirente dell’iPhone, nonostante acquisti un piccolo computer dotato addirittura di sistema operativo, dunque un dispositivo hardware general-purpose, non può usarlo in quanto tale ma solo limitarsi a quanto deciso dal produttore. Mi riferisco alle app, che devono passare per il vaglio e la tassazione di Apple, ma anche alla possibilità che la stessa azienda si riserva di modificare in corsa l’uso che si può fare dell’apparecchio acquistato, anche dopo il suo acquisto: aggiornamenti, cambi di policy, revoca di app.

Insomma Apple ha introdotto una novità importante, e molto pesante, nel rapporto che abbiamo con l’elettronica di consumo: persino un prodotto acquistato continua ad essere diretto, regolato e limitato dal produttore. Una parte del suo funzionamento è quindi esterna all’oggetto stesso e si trova “nel cloud”, fuori dal controllo dell’utente. È una sorta di diminuzione del tasso di proprietà dell’oggetto, che è quasi concesso in licenza anziché effettivamente venduto. Ci sono molti alibi a giustificare un’operazione del genere: la centralizzazione garantisce qualità, facilità, sicurezza, compatibilità. Vero. Ma è in realtà un ottimo modo per creare due cose: rendite di posizione e flussi di dati.

2. RENDITE DI POSIZIONE E LIBERTA’ DI SCELTA

La compatibilità, o meglio l’incompatibilità, è una delle armi più forti per indirizzare le scelte dei consumatori.

Da un lato consente di far scattare l’obsolescenza di un prodotto nel momento più opportuno, forzandone il riacquisto (potremmo parlare di una “obsolescenza controllata” come evoluzione di quella programmata già nota); dall’altro orienta la scelta dei prodotti complementari: inconcepibile possedere un telefono e un tablet che non si sincronizzano, o uno smartwatch che non dialoga con il telefono. E ora è il turno delle automobili, i cui produttori si stanno dividendo tra iOS e Android. Gli utenti non potranno non considerare la compatibilità al momento dell’acquisto: peserà di più la preferenza per il telefono o per l’automobile? Non è detto, ma in entrambi i casi uno dei due prodotti beneficerà di una rendita di posizione e la sua scelta da parte del consumatore sarà eterodiretta.

3. DATI E INFORMAZIONIMolti servizi, già esistenti o futuri, che sfruttano dispositivi connessi ad Internet si basano proprio sulla raccolta di dati da parte di un gestore centralizzato. Cito ad esempio gli attrezzi ginnici dell’italiana Technogym che trasmettono i dati dell’allenamento ad un servizio erogato in “cloud”. A fronte di un costo tecnologico assai marginale (qualche decina di euro al massimo), la raccolta e rielaborazione di dati offre sia all’utente sia al produttore un valore importante. Il tema della riservatezza dei dati e dei rischi connessi all’accumulo di grandi masse di informazioni personali è noto (si veda l’articolo di Alessandro Longo su CheFuturo!), eppure proprio quello dei dati è un forte motore economico dietro la “Internet of Things” che vedremo nei prossimi anni.

Non a caso soggetti come Google e Facebook, la cui creazione di valore nasce proprio dal “big data”, stanno investendo molte risorse in questa Internet of Things. Ipotizzando il classico esempio del frigorifero connesso in rete, si pensi a quanto potrebbe valere la conoscenza dei contenuti dei frigoriferi di milioni di persone. Per rimanere in questo esempio, un frigorifero che inviasse i dati direttamente al suo proprietario varrebbe strategicamente molto meno di uno che facesse la stessa cosa passando però per un servizio centralizzato, magari connesso ad un social network. Per non parlare dei televisori (LG ha recentemente ammesso che i suoi nuovi apparecchi spiavano le abitudini degli utenti), o i sistemi domotici.

4. OPPORTUNITA’ E COMPROMESSI

È innegabile che questi scenari siano innovativi e destinati a migliorare la vita delle persone; anche all’interno di un App Store chiuso e centralizzato nascono e si diffondono applicazioni intelligenti ed utili. Tuttavia quello che è a rischio è il nostro rapporto con la tecnologia: saremo sempre meno proprietari dei dispositivi che pure compreremo a caro prezzo. Il noto adagio “If you can’t open it, you don’t own it” che già descrive la maggior parte della tecnologia che ci circonda è destinato ad essere sempre più distante dalla realtà. Il mercato degli smartphone ci mostra come anche gli sviluppatori indipendenti, che propongono prodotti e servizi complementari ai telefoni, debbano sottostare alle condizioni anche economiche imposte dal gestore del marketplace. Anche qui si ripropone una centralizzazione rischiosa e un po’ incompatibile con lo sviluppo di realtà locali: perché tra uno sviluppatore italiano e un utente italiano ci deve essere per forza un mediatore d’oltreoceano?

L’idea visionaria della Internet of Things è quella di una rete i cui nodi sono gli oggetti, che possono dialogare tra loro aggregando e scambiando informazioni. Quella che stiamo per vedere è invece una Internet of Things fatta di oggetti che potrebbero parlare tra loro ma che vengono bloccati e limitati per motivi strategici.

5. OWNERSHIP, OPENESS

A fronte di tutto questo, comprare un Arduino e sostituirlo all’elettronica di una lavastoviglie è relativamente semplice. Il risultato? Un elettrodomestico aperto, aggiornabile, personalizzabile, collegabile in rete, non soggetto a controllo esterno. Questo approccio si chiama “open hardware”, e funziona laddove molti utenti incrociano le proprie esigenze e danno vita a progetti collaborativi. Non sempre trova meccanismi di sostenibilità, sia chiaro. Così come non tutti hanno il tempo e la voglia di modificare o costruirsi le cose per averne un controllo più diretto: ma possono decidere di pagare qualcuno con i soldi risparmiati dall’acquisto del prodotto commerciale tradizionale, magari rivolgendosi ad un FabLab o comprando un prodotto di qualche azienda minore che sfruttando i principi open source è in grado di fornire prodotti validi e più durevoli. E forse anche più sicuri: come giustamente rileva Peter Bright su Ars Technica[3], è probabile che il mondo si riempia di dispositivi con software non aggiornati (perché non aggiornabili!) e dunque più vulnerabili. Lady Ada, di Adafruit Industries, sulle colonne del New York Times ha proposto una carta dei diritti dei consumatori di prodotti Internet-enabled, che ricalcano proprio questi principi di apertura e autonomia.

Un errore che molti hanno seguito è quello di pensare ad organizzare tutto questo dall’alto, proponendo standard (fondamentali, ma non sufficienti), piattaforme, framework. Vista la natura caotica del mondo open source probabilmente è meglio cominciare dal basso, proponendo versioni aperte di tutti i dispositivi che conosciamo: l’integrazione verrà più spontaneamente.

Ripensare la Internet of Things in termini di “ownership” e “openness” è una delle attività più utili che la comunità maker, FabLab e open hardware può fare. Reinventare ciò che già esiste è l’occasione per aprirlo, condividerne il funzionamento come patrimonio di conoscenza e non dare per scontate soluzioni cui siamo abituati perché ci sono state imposte. C’è moltissimo da fare: è un’attività forse poco appariscente ma è probabilmente alla base di un futuro tecnologico più sostenibile.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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