Perché sono proprio gli startupper i più critici della Task Force?

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Leggo la risposta di Giuseppe Ragusa alle mie critiche considerazioni, e mi sembra doveroso rispondere, quanto meno per dar voce a chi (non sono pochi, e per una strana congiunzione astrale son tutti startupper) le mie critiche le ha condivise ed appoggiate, sia in pubblico che in privato.

Premessa: non voglio polemizzare (non più di quanto ritenga necessario per chiarire, almeno), ma io nell’articolo-risposta di Ragusa vedo uno straw man: tralasciando il prendere le iperboli per argomentarne il contrario con dati americani (mi sembrava che stessimo parlando di Italia, magari mi sono sbagliato), devo confessare che trovo abbastanza singolare il liquidare delle puntuali critiche (tra l’altro richieste) con un “non voler far niente”.

Ma andiamo con ordine. In prima istanza mi sembra difficile non sostenere che nel digitale 4 anni siano un’enormità, e 5 milioni di euro siano un fatturato in grado di bagnare i sogni di qualsiasi startupper italiano.

Ripeto italiano. Se poi – come nella risposta – vogliamo fare accademia e parlare di quanto è bello e bravo Zuckerberg, con tabelle in cui si sciorinano dati proprio dell’ecosistema USA, allora ok, accomodatevi pure. Ma questo non aiuta nessuno, tantomeno chi si deve confrontare con un ecosistema Italiano. I numeri nostri sono altri. Confrontiamoci con quelli e vediamo di mettere i piedi per terra. Non vi lamentate poi se qualcuno – come ho letto nei mille commenti alle discussioni – taccia la task force di voler “allargare le maglie” per infilarci qualche propria iniziativa che non decolla e che, con il passare degli anni, sta diventando scomoda da giustificare.

Sulla laurea avevo già argomentato parecchio, ma ripeto: il semplice inserire una categorizzazione è dequalificante per chi un titolo accademico non ce l’ha, e il “sufficiente ma non necessaria” è una pennellata inutile.

Ce l’hai, 3 su 3, non ce l’hai, accidenti… ma non importa, fa lo stesso. Peccato che non ce l’hai, comunque. Ecco, forse sbaglio io a leggere e/o sono prevenuto (ed evidentemente con me parecchi altri, visto che comunque qualcuno, e sono tutti giovani startupper, mi hanno detto di condividere le mie critiche). Ma mi sembra di rileggere l’odiosa e polverosa formula “costituisce titolo preferenziale…”. L’excursus sull’R&D, che essendo totalmente d’accordo non ho minimamente nominato , a cosa serve? A sostenere che Page e Brin hanno fatto un dottorato? Interessante rincorsa, ma come ho detto il problema non è avere una laurea, ma è giocare di sponda e di fatto “catalogare” chi invece non ce l’ha, esprimendolo in modo nemmeno troppo velato quando si parla di “domanda di lavoro qualificato”.

Qualificato da chi? Da cosa?

Snoccioliamo dati esteri, vogliamo fare gli americani, ma ancora su queste cose siamo lontani anni luce.

Veniamo poi alla alla cultura del fallimento: io parlavo solo di un sostanziale errore di comunicazione (la penalizzazione di chi non è mai fallito vs. chi invece ha sbagliato qualcosa): non so, forse sono abituato male, ma se voglio tendere la mano a qualcuno che ha sbagliato, non è che con l’altra tiro un cartone di merda in faccia di chi non lo ha mai fatto. Il resto è ovviamente in linea con quello che penso (e che pensano tutti, ovviamente).

Sul fondo dei fondi, ok: questo punto è soggettivo, e continuo a non essere d’accordo. Non abbiamo la cultura per farlo, non ce l’ha il nostro Governo che tende a controllare, pervadere, inquinare e rallentare tutto. Qualcuno ha notato il flame (idiota, indubbiamente) che ha sollevato la questione del conflitto di interessi sul controllo del fondo? Ma facciamocele due domande no? Ci serve davvero il fondo? Abbiamo davvero problemi a reperire soldi per finanziare startup? O vogliamo condividere il capitale di rischio con lo Stato? Ancora tiro in ballo la comunicazione: nessuno ha previsto davvero la reazione de “la gente” leggendo quella proposta? Era così difficile pensare che qualcuno non saltasse su e dicesse “Hey, ma questi, i VC, hanno finito i soldi o vogliono fare come Agnelli, che privatizzava i guadagni e statalizzava le perdite?”

Possiamo cantarcela fino a tarda notte, ma è innegabile che da noi c’è un problema di cultura, e questa parte dall’alto. Continuiamo con esempi di paesi (Israele, Germania) in cui il rapporto con le istituzioni è lontano anni luce da quello che abbiamo noi con il nostro establishment. Per carità, sono assolutamente d’accordo che questo circolo vizioso è da interrompere, ma lo vogliamo fare proprio ora? Provandoci sulla pelle e il sangue delle startup che sono, sempre dal mio personale punto di vista, una delle poche cose se non l’unica che può garantire un futuro al tessuto economico di questo paese?

In ogni caso, e qui termino, il liquidare le critiche (costruttive nella sostanza, sicuramente dirette nella forma) con una “reductio ad otium” è non solo ingeneroso, ma anche parecchio snob. Quanto ho scritto è stato ripreso, commentato, amplificato e appoggiato da moltissime persone, tutti quanti startupper. Ancora una volta, non è che sarebbe meglio chiedersi come mai sono proprio questi ad essere così critiche nei confronti del rapporto?

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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