Quest’articolo nasce da due letture estive. La prima è un post “Instead of cures for cancer we got Angry Birds” di Peter Nixey, imprenditore inglese.
Peter inizia la discussione riprendendo un articolo del Sunday Times che più o meno diceva questo: “Le menti più brillanti della valle, una volta inventavano cose di enorme importanza come il primo PC. Poi è arrivato Internet e la ricerca di grandi idee è stata eclissata da una lotta verso i soldi rapidi. Il denaro versato per risolvere duri problemi tecnologici è diminuito mentre l’interesse per lo sviluppo di applicazioni per iPhone è salito. Il risultato? Invece di cure per il cancro abbiamo ottenuto Angry Birds“.
Mentre mi risuonavano in mente queste parole ho iniziato a leggere il bellissimo libro “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas che racconta la storia del viaggio in America di Franco Antonello con suo figlio Andrea, affetto da autismo.
“Con il computer riesce a scrivere frasi compiute. Ha imparato a farlo dopo anni di esercizio, con l’aiuto di una persona che lo guidava.
Non sono mancati quelli che mi esprimevano la loro perplessità per questo sistema e per molto tempo non ho creduto nemmeno io a quello che vedevo.
Immaginavo che le frasi che comparivano sullo schermo fossero frutto dell’interferenza della persona che gli stava accanto. Poi, con mia grande sorpresa, Andrea ha acquistato una sua autonomia, adesso scrive con il computer senza che nessuno guidi il suo braccio e dice la sua sui più svariati argomenti: autismo, vita, amore. Conservo tutte le sue pagine, da quelle più strampalate e inconcludenti a quelle più toccanti. Sono lettere inviate dal suo mondo”.
Bene, questa è la dimostrazione che la tecnologia può davvero aiutare chi, ad esempio, è affetto da patologie particolari come l’autismo.
Sia chiaro che, come scrive lo stesso Peter nel suo articolo, non bisogna cadere nel tranello che sviluppare un’app sia semplice come trovare una cura per una malattia rara, tuttavia forse sarebbe bello se, oltre che inseguire il semplice profitto, si provasse anche ad aiutare gli altri. A volte basta davvero poco così come dimostrano le storie di Henable, Informatici Senza Frontiere e Informatica Solidale.
Ferdinando Acerbi, di Brescia, 47 anni e un passato da olimpionico, dopo una vita dedicata allo sport agonistico si trova, a causa di un incidente, a dover affrontare una serie infinita di “barriere”, non solo architettoniche.
Alla fine del 2012, fonda Henable, la sua startup, con lo scopo di creare uno spazio aperto per la condivisione di soluzioni digitali e tecnologie fruibili in grado di migliorare la qualità della vita delle persone diversamente abili.
Henable nasce da un bisogno reale e concreto del suo founder, che ha cercato di portare avanti il suo sogno, realizzatosi circa un anno dopo la presentazione della sua idea a H-Farm.
Il settore che ha scelto per la realizzazione della sua startup è strettamente collegato al suo ambito di vita, ovvero la disabilità, e ciò costituisce un punto di forza per Henable, in quanto opera in un settore familiare e conosciuto, nel quale sarà possibile continuare ad operare sempre nell’ottica del digitale.
La prima di una lunga serie di applicazioni dedicate a rendere la vita dei diversamente abili, più smart è Henable ZTL.
«Ad oggi – racconta Acerbi – abbiamo circa 2.000 download dell’applicazione tra Android e IOS, spero di raggiungere numeri più interessanti nel breve periodo, ma i commenti e la risposta della base, come quella delle PA, è entusiastica finora. Per quanto riguarda il futuro, siamo impegnati nella cernita di altre applicazioni ugualmente suggerite dai nostri “collaboratori”. In particolare, stiamo cercando fondi per sviluppare un’applicazione di ausilio all’apprendimento richiesta direttamente da un’associazione di logopedisti e stiamo cercando partner per l’implementazione di un sistema di pagamento alla colonnina del self service della benzina direttamente dallo smartphone (ad oggi paradossalmente le pompe sono accessibili anche ad una persona in carrozzina, ma non le colonnine di pagamento).
«Le tematiche che in generale sono emerse come le più sentite anche dai feedback del nostro recente Henable Road Tour
che ci ha portato a girare l’Italia per conoscere le storie di chi come me ha problemi da risolvere, sono quelle riguardanti i pagamenti dei vari servizi in generale e la sicurezza personale. Ci stiamo ragionando nell’ottica di poter formulare nuove proposte».
Informatici Senza Frontiere, invece, è un’associazione senza scopo di lucro che da anni realizza soluzioni contro il digital divide, Chiara De Felice, Responsabile della Sezione Puglia mi ha raccontato gli ultimi progetti tesi a migliorare la vita di soggetti diversamente abili.
Qual è la storia di Strillone e di ISA?
«I.S.A., I Speak Again, è un progetto di Informatici Senza Frontiere, nato nella sezione Puglia nel 2011 a seguito di una richiesta di aiuto pervenuta al nostro responsabile progetti, Dino Maurizio. La richiesta arrivava da un malato di SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) il quale, in fase terminale, impossibilitato al movimento e alla parola, per comunicare con i propri amici e parenti utilizzava un sistema molto avanzato e costoso, che gli permetteva di intercettare il movimento della pupilla per muovere il mouse sullo schermo per digitare parole riprodotte poi in sintesi vocale. Abbiamo così pensato di creare uno strumento simile a quello utilizzato, scrivendo noi, da un lato, il core del codice, e avvalendoci di software open source per creare le componenti più difficili».
È nata così I.S.A., acronimo di “I Speak Again”… “Io parlo di nuovo”.
«I.S.A. è una tastiera virtuale, interamente progettata e realizzata dai soci di ISF, che, pur permettendo alla sua prima beta release un’esperienza utente di rilievo, non pretende di essere uno strumento definitivo, né di funzionare alla perfezione, ma vuol porre le basi per qualcosa di più evoluto, aprire una strada allo sviluppo di nuovi strumenti di assistenza. L’intento è di cercare una strada semplice e immediata per restituire la parola a chi per malattia perde temporaneamente o definitivamente la possibilità di parlare e muoversi.
“Ho freddo”, “ho caldo”, “voglio andare a dormire”, “mi fa male la testa”, frasi apparentemente banali, eppure chiaro specchio di bisogni primari che sono da sempre parte integrante della nostra quotidianità.
«Ogni persona nel pieno delle sue capacità motorie impiega un solo secondo per pronunciarle. Un malato di Sclerosi Laterale Amiotrofica, o un tetraplegico anartrico (senza l’uso della parola) “murato vivo” dentro un corpo granitico che ne avvolge la mente vigile, può impiegare parecchi minuti per esprimere il più banale concetto.
«Con I.S.A., però può farlo con il suo pc. Si calibrano inizialmente i movimenti del viso o dell’occhio, e con una connessione ad Internet o intranet o sullo stesso pc, si possono digitare con il movimento dell’occhio o del viso le lettere che compaiono sulla tastiera virtuale così da comporre la frase che gli permetterà di far capire a chi lo segue ciò di cui ha bisogno o che vuole esprimere».
E Strillone come nasce
«Strillone, è invece un’applicazione di Informatici Senza Frontiere progettata per smartphone, tablet e PC desktop, che consente alle persone non vedenti o con gravi problemi di visione di sfogliare e ascoltare le notizie d’interesse del proprio quotidiano preferito mediante la sintesi vocale integrata. L’idea di Strillone nasce da un’intuizione di Roberto De Nicolò che nell’ambito di ISF si occupa di coordinare i lavori concernenti i progetti legati alla disabilità. Ora Strillone è disponibile su App Store e su Google Play».
Informatica Solidale nasce dalla volontà di alcuni professionisti del settore informatico di valorizzare la propria esperienza per progetti di volontariato. Ne ho parlato con il Presidente, Claudio Tancini.
«Pensiamo che la tecnologia sia una grande opportunità per affrontare e in molti casi superare i problemi del disagio sociale. Arriviamo attraverso percorsi diversi, in grandi aziende o come liberi professionisti: un’associazione come la nostra aiuta a mettere a fattor comune le esperienze e le conoscenze personali, creando un insieme di valore e di riferimento per altre persone che vogliono partecipare, ma che altrimenti rimarrebbero isolate. Per me, come professionista, è molto importante che il mondo dell’informatica esca da una visione strumentale e prenda consapevolezza delle sue grandi capacità. E che, di conseguenza, chi ci lavora senta la possibilità di fare qualcosa di importante per la società».
Quali sono i progetti in corso?
«Dopo aver fondato Informatica Solidale, ci siamo mossi su diverse aree di progetto, in primis per il supporto al Terzo Settore, che può migliorare moltissimo la qualità dei progetti delle organizzazioni non profit attraverso un utilizzo più intenso delle soluzioni informatiche. In questo senso stiamo sviluppando l’edizione 2013 dell’Osservatorio per l’ICT nel non profit insieme a Fondazione Think, e un Framework informatico per le organizzazioni nonprofit, in collaborazione con la Rete Civica di Milano.
«Un’altra area importante di progetto è la riduzione del Digital Divide, soprattutto quello culturale, aiutando persone che per necessità economiche o mancanza di alfabetizzazione informatica, non riescono a utilizzare la rete, rischiando l’emarginazione sociale o la perdita di opportunità. A Milano abbiamo in previsione tre sedi per corsi a persone over-60 dal mese di ottobre.
«Altre aree d’intervento, a oggi ancora in fase di avviamento, riguardano il supporto alla persona (in particolare l‘E-Health e il Telecare), e il supporto alle persone soggette a disabilità, soprattutto operando per costruire opportunità di emancipazione per i giovani con disabilità.
«Ultimo argomento dei nostri progetti, ma non per importanza, è la cooperazione internazionale, sia per aiutare le persone dei Paesi più poveri che non possono accedere alla tecnologia, sia per supportare i progetti delle ONG che intervengono sul posto. Per questo tema abbiamo costituito uno specifico centro di competenza informatico, che adesso è a disposizione delle strutture non profit per i progetti in Africa subsahariana».
A tutti e tre ho chiesto:
Molti ragazzi inseguono il mito di Google e Facebook, perché non usano le loro capacità per aiutare anche gli altri?
Ferdinando Acerbi – «Secondo me i ragazzi non “usano le loro capacità per aiutare gli altri” perché non hanno l’educazione, non ne sentono il bisogno (vedi caso henable nato da un bisogno concreto) e molto spesso, specialmente in un periodo di crisi, si cerca di inseguire un mito che può portare, secondo il pensiero dei giovani, guadagno o successo, piuttosto che inseguire un qualcosa di “incerto” o magari un sogno. Ovviamente l’inseguimento di un mito da parte dei giovani è generato anche da ciò che viene loro costantemente proposto dai media, dalla società o dalle grandi marche».
Chiara De Felice – «Il volontariato è una bellissima esperienza, che certamente restituisce a chi la compie molto più di quello che dà, ma ogni persona segue quelle che sono le proprie passioni e predisposizioni caratteriali. Nella vita il contributo di tutti, anche se in ambito diverso, serve per il progresso sociale. Pertanto ritengo che molti ragazzi cerchino un proprio successo personale e questa ricerca sia uno stimolo a migliorare, inventare, creare. La diversità genera il progresso. Personalmente, poi, credo che sia corretto che gli altri siano aiutati da chi ha davvero voglia di farlo».
Claudio Tancini – «Quando propongo di partecipare alle nostre iniziative, sia a platee di adulti che di giovani, mi trovo sempre un 50% delle persone assolutamente inerti: questa società in generale non stimola l’altruismo e la partecipazione attiva. Nel restante 50% trovo molta empatia, ma molta meno partecipazione (massimo il 10% degli interessati). E in genere le motivazioni della mancanza di partecipazione sono legate ai propri impegni personali, e tra questi inserisco anche la ricerca o la difficile situazione sul lavoro.
«A volte sono alibi personali, ma in molti casi purtroppo il tempo non c’è. Credo che il nostro obiettivo debba essere soprattutto quello di dimostrare con l’esempio che il tempo si può trovare, e donare e aiutare gli altri, e che questa esperienza serve a crescere e a costruirsi momenti molto più importanti di quelli “virtuali”.
«Non demonizzerei comunque l’utilizzo di Google e Facebook: è solo un modo di fare socialità diversa da quello delle generazioni precedenti; resto convinto che, quando riusciamo a portare ai ragazzi un modello di partecipazione positivo, i risultati ci sono, anche se la strada da fare è tanta… soprattutto da parte degli adulti».
Queste storie dimostrano che si possono aiutare gli altri, e che a volte anche solo con un po’ di volontà è possibile realizzare qualcosa che migliori la vita di chi è più sfortunato di noi. Queste storie forse per qualcuno saranno un pugno nello stomaco, indaffarati nella ricerca del solo profitto, beh spero che questo pugno li risvegli e li convinca a fare qualcosa per gli altri.