Sentiamo spesso dire di quanto Internet abbia cambiato la nostra vita, dell’impatto che abbia avuto nelle nostre relazioni sociali, nella maniera in cui acquistiamo, in cui guardiamo la televisione, consumiamo informazione, leggiamo libri e la lista potrebbe continuare pressoche’ all’infinito. Delle abitudini delle persone, si sa, siamo tutti grandi esperti ed osservatori. Abbiamo opinioni che il più delle volte rispecchiano la scientificità del pendolino del compianto Maurizio Mosca o delle cure della nonna. Ci si basa spesso su dati trovati più o meno a casaccio in giro per la rete, sul blog dell’influencer di turno o estrapolati dai ricercatori di un laboratorio sotterraneo dell’Università del Nebraska (senza nulla togliere alla rispettabilissima Nebraska-Lincoln).
Da tempo nell’industria della comunicazione e del marketing ci si chiede in quale maniera si possano ottenere dati che misurino in maniera valida e, più o meno scientifica, le attitudini e i comportamenti degli utenti online in modo da poter capire in che maniera il web abbia avuto un impatto sulle nostre vite.
L’impatto che i Big Data hanno avuto nell’industria del marketing e della comunicazione è stato del tutto rivoluzionario. Da un lato ci hanno permesso di misurare l’effetto delle campagne di marketing online, e dall’altro abbiamo potuto capire in che maniera Internet abbia trasformato le vite di quasi 2,5 miliardi di individui nel mondo.
Saper interpretare, mettere mano e dare un senso statistico ai Big Data è ormai una di quelle abilità imprescindibili per un marketer che ha a che fare con grandi campagne globali e che si trova a dover disegnare strategie per compagnie con milioni di contatti su base mensile. Esistono diversi però e come al solito tra ciò che si predica e ciò che si porta a casa, passa molta acqua.
In particolare, in un’ intervista rilasciata a Forbes, Tim Suther, CMO di Acxiom, rivela che solamente l’11% dei marketers utilizza dati nel prendere decisioni riguardo alle proprie campagne. In un successivo passaggio, nel quale a mio avviso rivela una concezione del marketing ormai datata, suggerisce che il problema sia che molti marketer preferiscono affidarsi al fascino dell’interpretazione cosiddetta “artistica” del dato più che sul suo studio statistico. La capacità di creare insight dai numeri non è alla portata esattamente di chiunque ma col tempo bisognerà adattarsi e formare nuove generazioni di analisti in grado di creare “fiori dal cemento”, di estrapolare cioè quel quoziente “artistico” da un immenso foglio di dati excel.
Un altro degli ostacoli individuati da Tim Suther nell’adozione dei Big Data da parte dei marketer, riguarda l’ampiezza delle fonti e la loro affidabilità’.
Come dicevo prima, le fonti di dati gratuite sono innumerevoli, ma quali dovremmo scegliere? A quali dovremmo allocare porzioni di budget rispetto alla loro affidabilità? E quali sono le metodologie di ricerca in grado di fornirci i dati di cui abbiamo bisogno?
Negli ultimi 3 anni gli utenti preoccupati per la privacy online sono aumentati del 24% a livello globale, del 58% in Italia, e con loro sono aumentate anche le preoccupazioni di chi lavora con i Big Data.
I cittadini sono sempre più consapevoli del fatto che i loro movimenti online sono osservati, tracciati e studiati, ed esistono sempre più strumenti in grado di rendere vano il tentativo di seguirne i comportamenti. Mozilla, ad esempio, ha recentemente annunciato alla IAB Conference in Arizona, che il loro nuovo browser non traccerà di default le abitudini dei propri utenti.
Ma è lo studio ai fini pubblicitari che li spaventa veramente? Scavando più a fondo, Alastair Little, Marketing Platform Director a GlobalWebIndex, ha voluto creare un piccolo focus group composto da 50 utenti che avevano già risposto di essere preoccupati riguardo alla loro privacy online, e ai quali ha chiesto le ragioni per le quali temevano la raccolta dei loro dati di comportamento. L’utilizzo ai fini pubblicitari è arrivato ultimo tra le opzioni presentate. Più precisamente l’ordine è stato il seguente:
-Sono preoccupato del furto di identità;-Sono preoccupato del furto dei dati della mia carta di credito;-Sono preoccupato riguardo a come diverse compagnie possano passarsi i miei dati tra di loro;-Sono preoccupato che i dati riguardo a dove mi trovo finiscano online;-Sono preoccupato perché il mio computer potrebbe essere violato;-Sono preoccupato perché potrei ricevere pubblicità;-Sono preoccupato che il governo possa tracciare le mie attività.
Essere consapevoli di come i nostri dati vengono trattati online nel 21esimo secolo, è una responsabilità che tocca ad ogni cittadino fruitore di servizi online, ma, come questo piccolo focus Group dimostra, le preoccupazioni dei cittadini riguardo alla propria privacy non dovrebbero più di tanto spaventare i marketer. Se si è onesti e trasparenti sull’utilizzo che si fa di questi dati e si utilizza una metodologia che consenta all’utente di essere in controllo dei propri dati, allora il problema riguardo alla raccolta dei Big Data non si porrebbe nemmeno.
E qui si apre un forte dibattito che vede contrapporsi i sostenitori di due diverse metodologie di ricerca: “Passiva” o ”implicita” VS “attiva” o “esplicita”. La prima consiste nell’inserire poche righe di codice all’interno di un sito, un’applicazione o un contenuto multimediale per potere installare cookie nei pc o nel telefono degli utenti più o meno inconsapevoli. In questo modo si collezionano terabytes di dati che vanno a costruire immensi database di dati comportamentali sull’utilizzo che gli utenti fanno della rete. La seconda metodologia, più trasparente, consiste invece nel domandare direttamente agli utenti quali siano le loro attitudini, preferenze ed intenzioni attraverso sondaggi che posso essere onine, telefonici o faccia a faccia, o focus group.
Proprio riguardo a questo, la piu grande compagnia che si occupa della raccolta di Big Data tramite software di tracking, ComScore, e stata coinvolta in una class action, accusata di installare software di tracking subdolamente nei computer degli utenti e di rivendere poi le informazioni sensibili ad compagnie terze, senza l’esplicito consenso degli utenti.
Certo, di cause ne vengono intentate tutti i giorni, ma questa suscita in particolare la mia attenzione e la seguirò con un certo interesse.
Non voglio ora dilungarmi su quali siano i benefici dell una o dell’altra metodologia, ma mi preme sottolineare come la trasparenza sul modo in cui vengono raccolti, e soprattutto utilizzati, i dati degli utenti, potrebbe salvare il futuro dei Big Data, in attesa che una legislazione uniforme possa accendere nuove luci sulle numerose zone d’ombra e potenzialmente diluire le preoccupazioni degli utenti riguardo all’utilizzo dei propri dati.