Eravamo alla rilettura del pezzo da spedire a CheFuturo! e la terra ha iniziato a tremare e ancora forse non ha finito. Dovremmo abituarci a queste danze in un paese sismico come il nostro ma, invece, tutto viene giù e le persone muoiono sotto le case e le fabbriche, vittime di un evento inaspettato.
Anna – Ma non è affatto inaspettato. E le immagini di capannoni industriali caduti come tessere del domino perché le travi non sono state ancorate ai pilastri ci fa sentire responsabili tutti, anche chi perde settimane a far certificare una caldaia perché così vuole la legge. E viene giù anche un pezzo di storia italiana fatta di campanili e piccoli borghi senza che nessuna nuova tecnologia, nuovo materiale o altro sia riuscito a consolidarle in tempo.
E ci sono i morti, gli sfollati, le tendopoli come all’Aquila e qualsiasi discorso suona di inutile retorica. La Rete, che è sempre veloce, nel giro di qualche minuto ha iniziato a diffondere i filmati, ma anche la richiesta di sbloccare il WiFi per comunicare più facilmente.
Luca – Percepita dal nostro punto di vista (cittadini, ma anche architetti e designer) l’esperienza del terremoto in Italia è sempre segnata da un misto di sensazioni che vanno dall’impotenza alla frustrazione. È per via del ripetersi delle stesse immagini, come in un loop inceppato. Eppure, esistono responsabilità oggettive (tecnici e certificazioni), mancanza di cultura sismica (non siamo giapponesi, ma l’Italia trema e spaventa dalla notte dei tempi), straordinaria amnesia collettiva riguardo ogni forma di maturazione e di responsabilità.
Il tremendo terremoto di Kyoto-Kobe divenne l’occasione simbolica per un paese intero di uscire dalla crisi rinnovato. Con quanta rapida leggerezza rimuoveremo anche questa tragedia?
Ma torno al nostro ruolo e alla possibilità, ad esempio, di rivedere radicalmente la questione dei capannoni sul nostro territorio. Una delle matrici fisiche più evidenti del consumo di territorio degli ultimi vent’anni: guardandoli, infiniti lungo tutta la penisola, credevo sarebbero stati come la plastica, impossibile da riciclare se non dopo 100 anni. E, invece, questo sisma ha dimostrato che anche queste macchine per produrre e colonizzare il territorio sono fragili e pensate/costruite male.
Ripensare questi oggetti invasivi, sia in termini di sicurezza che di impatto visivo sulle nostre terre: ecco, questo potrebbe già essere una traccia minima, ma necessaria.
Ripensare come risarcire il patrimonio ferito a morte. È sempre così necessario ricostruire tutto com’era e dov’era? E poi mettere in rete i risultati della diagnostica sui capannoni e gli edifici lesi mappando il territorio, coinvolgendo saperi e intelligenze che si integrino tra di loro generando un laboratorio attivo che produca conoscenza e progetti diversi per un paese diverso.
A. – Sì, una mappatura sarebbe un primo passo. Si potrebbe ragionare come nel laboratorio di Temporiuso, che mappa le costruzioni vuote, gli spazi abbandonati o sottoutilizzati. Tutto con lo scopo di avviare progetti di piccola impresa, artigianato, associazionismo utilizzando la rete come fonte democratica per raccogliere e diffondere informazione. Inoltre, penso che la questione della mappatura possa servire a restituire informazione su un territorio che Google ci ha insegnato a guardare solo troppo dall’alto.
L. – Sì, immaginavo un atlante in tempo reale che monitori e informi sullo stato dei danni, delle trasformazioni e delle azioni messe in atto. Un sistema che metta in dialogo attivo i comuni e le provincie e che, insieme, dia forza alle forme di partecipazione da parte delle diverse comunità. Così come un preziosostrumento per tecnici e realtà specializzate in grado di dare contributi reali.
A. – In queste ore ho parlato con chi è stato all’Aquila e poi a Haiti e mi sembra di capire che il primo fronte della progettualità riguarda più l’abitare e meno l’architettura. Il primo soccorso ha risposte efficienti nelle tende, che sono tecnicamente perfette, leggere e trasportabili e che, soprattutto, consentono in poche ore di dare ospitalità a migliaia di persone. L’emergenza lavora sull’abitare dicevo, il che significa fornire idee per garantire prossimità alla dimora, così da poter entrare anche per brevi momenti a recuperare le proprie cose.
Idee per provare a ripristinare i cicli sociali, oltre che vitali, delle comunità (è anche sulla ricucitura dei ritmi temporali che riparte l’abitare); idee che consentano di garantire la privacy senza imporre eccessiva promiscuità e puntando su spazi sociali e spazi del sé; strumenti per assicurare trasparenza nell’informazione sulle tappe della ricostruzione, sulla distribuzione delle risorse, sulla progettazione di una rete sociale virtuale a sostegno di quella reale.
L. – In questa fase ho l’impressione che ci sia soprattutto bisogno di supporto psicologico, comunitario e materiale. I campi di prima emergenza servono a questo e mi sembra che la macchina della Protezione Civile si sia mossa veramente bene e con grande efficienza. Il problema è invece la voglia di ricostruire tutto e in fretta come hanno fatto con le centinaia di palazzine antisismiche sparpagliate nella periferia dell’Aquila. Ora rimarranno lì per decenni offrendo una poverissima immagine di urbanità e qualità ambientale. La relazione tra tempo/attesa e tempo/azione è decisiva e delicata, e su questo tema si potrebbe provare a raccogliere contributi e a dare vita a forme di networking allargato. Penso a una rete che coinvolga i tanti progettisti italiani chiamati a offrire un contributo significativo da realizzare in squadra insieme ad altri specialisti.
A. – Gli amici giapponesi con cui lavoriamo da giorni ci scrivono ininterrottamente lunghe email per raccontare la loro ricostruzione, una fase che ha impegnato molto seriamente a tutti i livelli. E ci dicono, come ci è stato riferito in molte parti del mondo, che a dispetto di tutto abbiamo la migliore Protezione Civile in termini di professionalità, capacità organizzativa e logistica. Detto da loro inorgoglisce parecchio.
Pensandoci, mi viene in mente un’idea. Uno dei loro più straordinari architetti, Shigeru Ban, capii dopo il terremoto di Kobe del 1995 che per l’architettura, diventata una fucina di edifici lussuosi, niente era più straordinario che ideare residenze temporanee per i terremotati. Così, iniziò a progettare case in tubi di cartone su fondazioni costruite su cassette per bottiglie riempite di sabbia, e vi alloggiò migliaia di sfollati. Ban divenne poi il mago dell’architettura d’emergenza e costruì le case di carta per i terremotati in Turchia, India e Sri Lanka, oltre ai recenti centri di accoglienza temporanea a Okinawa dopo lo tsunami del 2011.
Ecco perché voglio chiedere a tutti i progettisti e designer della rete, di avviare una piattaforma condivisa di progetti antisismici per le fasi successive dell’emergenza (CheFuturo!, ci puoi ospitare?). Vi ricordate il call sulla rete della BP nel 2010 per trovare una risposta al disastro della marea nera nel Golfo del Messico? Un progetto open source che metta in gioco le menti migliori della progettazione architettonica, del design, del restauro, dell’ingegneria strutturale e dei materiali e offra idee per una rapida, bella e resistente ricostruzione di quel meraviglioso pezzo del nostro paese.