Puntiamo sullo Storylistening, l’arte di ascoltare prima di raccontare

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Il 21 maggio di due anni fa a Leavesden, non lontano da Londra, mi ritrovavo in una di quelle code a serpentina che speri, prima o poi, avranno una fine. Si procedeva a passo lento, al ritmo della magica musica di John William, colonna sonora dei film della serie di Harry Potter. Di lì a poco saremmo entrati nel The Making of Harry Potter, un viaggio nell’universo del mago più famoso del cinema, attrazione inaugurata per festeggiare i dieci anni della saga creata da J.K. Rowling.

Gigantografie di volti noti ci osservavano dall’alto e, al termine della coda, prima di entrare in una stanza immensa e buia, su una parete alla mia destra leggo: nessuna storia vive a meno che qualcuno non voglia ascoltarla, no story lives unless someone wants to listen, firmato JK Rowling.

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Ho fotografato quelle parole perché forse le stavo cercando e, quando le ho lette, ricordo di aver pensato: ‘wow’. In quel momento è come se avessi identificato chiaramente che cosa mancasse alla parola storytelling: mancava una parte importante del processo comunicativo, ovvero chi ascolta.

Senza chi ascolta una storia non ha vita. Da quel giorno la parola storylistening è diventata una parola importante nel mio manuale di viaggio

Il professore Brian Sturm sottolinea come la parola storytelling sia teller-centric, incentrata su chi racconta, mentre la parola storylistening sia listener-centric, incentrata su chi ascolta. Credo che i due concetti non siano in antitesi, ma siano semplicemente le facce di una stessa medaglia.

Foto: Angela Morelli

Circa cinque anni fa nel design dell’informazione e nella visualizzazione dei dati c’è stato un boom del concetto di storytelling. La cosa è comprensibile. Se, infatti, l’obiettivo è aiutare il nostro interlocutore a navigare e capire informazione complessa, non possiamo prescindere dalla progettazione di una narrativa che faciliti il ragionamento logico ed emozionale di chi dovrà navigare ed utilizzare quell’informazione. Scienziati come Daniel Kahneman ci insegnano che noi esseri umani siamo programmati per capire il mondo e l’informazione che ci circonda sotto forma di storie. Il modo in cui pensiamo è strutturato come una narrativa continua di connessioni causa ed effetto.

Pensiamo in storie, comprendiamo attraverso storie, sono nel nostro DNA, hanno un’importanza vitale

Quando l’obiettivo è facilitare la comprensione di risultati scientifici e quando l’oggetto della comunicazione sono temi controversi come la scienza del cambiamento climatico, progettare la giusta narrativa non è semplice.

Un vecchio detto dice: puoi facilmente portare un cavallo nell’acqua, ma convincerlo a bere è tutta un’altra questione, specialmente se il tuo obiettivo non è un sorso fugace, ma una bevuta che permetta a lui di dissetarsi e a te di viaggiare per il resto del giorno.

Dan Kahan. Credits: Researchtoaction.org

Dan Kahan, professore presso la Yale Law School, sostiene che la scienza di comunicare la scienza poggia su diversi pilastri come la psicologia o le scienze sociali e presenta delle ricerche molto interessanti che hanno lo scopo di chiarire meglio il processo attraverso cui noi esseri umani siamo in grado di capire le scoperte scientifiche e le conseguenze di quelle scoperte sulla nostra vita. Il cambiamento climatico è uno degli esempi più noti che evidenziano questa questione, ma non è il solo.

Nelle ricerche di Kahan relative alla percezione del rischio sul climate change tra membri del grande pubblico, l’obiettivo è individuare che cosa è che influenza la percezione di questo rischio, la preoccupazione per questo problema. Molti sostengono che tale percezione sia legata alla mancanza di conoscenza o alla inabilità di capire evidenza scientifica. Kahan ha condotto uno studio chiedendo ad un vasto campione di partecipanti quanto seriamente considerino il climate change, al fine di capire chi è più preoccupato e chi lo è meno e, soprattutto, per testare delle tesi che ne spieghino il perché.

I risultati mostrano che la quantità di informazione ricevuta e l’abilità di capirla non sono la ragione che spiega un incremento nella preoccupazione e nella percezione del rischio

Coloro che sono in grado di processare facilmente informazione scientifica non hanno una maggiore percezione del rischio, ma anzi hanno una percezione del rischio lievemente inferiore a chi non possiede un elevato grado di scientific literacy.

Una delle fonti del problema è ciò che viene chiamato motivated reasoning, ragionamento motivato. Il ragionamento motivato si riferisce alla tendenza di noi essere umani di far combaciare le nostre valutazioni relative ad informazione di ogni sorta con l’obiettivo parallelo di ottenere la risposta che vogliamo, quella di cui abbiamo bisogno in base alla nostra appartenenza ad un certo gruppo. Ciascuno di noi è immerso in un network di gruppi sociali e l’appartenenza ad essi influenza il modo in cui percepiamo evidenza scientifica su temi come il cambiamento climatico. Anche quando su quella evidenza c’è consenso scientifico, noi decidiamo di valutarla in base ai nostri parametri. Se l’evidenza scientifica entra in contrasto con la nostra appartenenza a questi gruppi, non importa quanto chiara e comprensibile sarà l’informazione, noi tenderemo a valutarla nel modo che ci consente di affermare e proteggere la nostra appartenenza al gruppo. Costruiremo la storia alla quale preferiamo credere.

Questi studi ci dimostrano che il modo in cui comunichiamo non può prescindere da come il nostro ascoltatore si relaziona agli altri nella società e da quali sono i suoi valori di appartenenza

Questi valori di appartenenza saranno un fattore cruciale nel modo in cui l’esperienza di storylistening prenderà forma nella testa del nostro ascoltatore. Dobbiamo capire la narrativa di chi ascolta e quello che la nostra storia potrebbe diventare nella mente di chi ascolta. La narrazione, sia essa fatta di parole o di numeri, di suoni o di immagini, dovrebbe diventare un viaggio nella mente di chi riceve l’informazione, un viaggio che comprende tutte le fermate necessarie per permettere, a chi riceve il messaggio, di aprirsi all’ascolto e di capire l’informazione.

Quello che possiamo fare secondo Kahan è adottare una strategia a due canali. Il primo è il content, il contenuto: comunicare informazione in un modo che sia comprensibile e chiaro a coloro che non sono esperti. Il secondo canale è ciò che lui chiama meaning, significato. Ogni essere umano fa una valutazione velocissima ed inconscia dell’informazione che riceve, valutando se questa informazione continuerà o no a connetterlo al suo gruppo di appartenenza e al sistema di valori in cui questo gruppo crede. Se il significato che questa informazione ha per chi la riceve non mette in pericolo il network sociale di appartenenza, il nostro interlocutore sarà più flessibile e disposto ad ascoltare.

Vorrei che il mio 2015 fosse un anno pieno di storie importanti da raccontare che nascano da una domanda: quale è la storia che il mio target audience sarà in grado di ascoltare in modo che l’informazione presentata gli permetta di prendere una decisione che sia a favore del pianeta? Vorrei partire da chi ascolta e vorrei cercare di avventurarmi anche in terreni scomodi, dove i miei interlocutori non siano necessariamente coloro che sposano la mia causa. Essi possono e devono essere parte del cambiamento.

ANGELA MORELLI

Questo post è anche nell’ebook Italia 2015 Che Futuro, attualmente in download gratuito.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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