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Quando il futuro era a 8 bit

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Perché i retro-computer sono così importanti nella moderna cultura del movimento maker.

Da alcuni mesi nell’ambito dei social network e degli altri media utilizzati da coloro che si identificano nella cultura maker è sempre più evidente il crescere dell’interesse verso i cosiddetti retro-computer, ovvero quelle macchine ad otto bit che hanno fatto la storia dell’informatica a partire dagli anni ’70 in poi.

Un computer che ha segnato un’epoca: il Commodore 64

Indubbiamente prodotti di larga diffusione domestica come lo ZX Specrtum Sinclair e il Commodore 64 hanno profondamente influenzato un’intera generazione di futuri professionisti informatici, che come me, figli del boom economico degli anni ’60, hanno mosso su quei giocattoli i primi passi nel mondo della programmazione per poi intraprendere studi tecnici che hanno portato al forte sviluppo del settore ICT romano e milanese degli anni 90.

Tuttavia, il fascino che traspare dagli articoli e post che riguardano l’argomento sembra derivare da qualcosa di più del semplice ricordo nostalgico del periodo informatico giovanile. Mentre sfogliavo il numero della rivista Make di dicembre/gennaio, tradizionalmente dedicato quasi per intero allo stato dell’arte del più tradizionale e inflazionato argomento maker: la stampa 3D, improvvisamente a pagina 92 vedo apparire la foto di un oggetto che credevo di aver dimenticato ma che invece mi è immediatamente risultato familiare riportandomi emotivamente ai tempi del liceo: l’Altair 8800.

La copertina del numero di “Popular Electronics” che parla dell’Altair 8800 (1975)

Intendiamoci, l’articolo si riferiva all’uscita del numero di gennaio 1975 di Popular Electronics dove veniva lanciato il celebre Kit di montaggio destinato a “lanciare la futura rivoluzione tecnologica” (parole del titolo su Make), ed io nel gennaio 1975 avevo da poco compiuto 10 anni, tuttavia l’Altair 8800 rappresentava nei primi anni ’80 ancora una possibile opzione di acquisto per gli hobbisti elettronici che volevano sperimentare la programmazione dei microprocessori ad 8 bit e sulle riviste di elettronica si trovavano spesso articoli divulgativi che facevano riferimento a questo “mini-computer”.

L’articolo su Make è molto interessante soprattutto perché non si sofferma sulle caratteristiche tecniche dell’Altair 8800 ma racconta la storia del giovane Paul Allen che, dopo aver visto in edicola la copertina di Popular Electronics con il claim che faceva riferimento al basso costo del kit, comprese che da lì a poco i computer sarebbero entrati nelle case e che come tutti sanno i computer per essere utili necessitano di un linguaggio e di programmi (l’Altair si programmava in binario usando gli interruttori e i led posti sul pannello frontale).

Allen acquistò una copia del numero di Popular Electronics e corse nel dormitorio di Harward dove risiedeva il suo amico Bill Gates. I due contattarono Ed Roberts, fondatore della MITS, l’azienda che aveva ideato il kit, e gli proposero il loro nuovissimo prodotto: un interprete per il linguaggio Basic basato sul microprocessore 8080, proprio quello dell’Altair 8800.

Quel giorno nacquero due capisaldi della futura rivoluzione ICT: i personal computer e gli account manager che vendono i prodotti software prima di averli realizzati.

L’interprete BASIC di Allen e Gates, infatti, non era ancora stato sviluppato. Dopo aver ottenuto la loro prima commessa proprio dalla MITS fondarono la Micro-soft poi divenuta Microsoft e scrissero l’Altair Basic poi diventato Microsoft Basic. Il resto è noto a tutti.

Tutto questo mi ha portato a fare una considerazione sul modo in cui solitamente ci viene presentata la storia dei Computer. Quasi sempre si tratta di un excursus cronologico che elenca le varie tecnologie via via apparse sul mercato, con tanto di riferimenti a sigle, modelli e sottomodelli dei vari computer, dal mainframe al moderno iPad. Nei casi mortalmente più noiosi si parte addirittura dalla Macchina Universale di Turing dilungandosi sulle differenze tra questa e le architetture di Von Neumann.

Da entusiasta della cultura maker mi hanno colpito le parole di Forrest M. Mims III, l’autore dell’articolo sulle pagine di Make, che dopo aver illustrato la foto della copertina del numero di Popular Electronics introduce la sua narrazione della storia dell’Altair con questa frase: “MITS e Popular Electronics mi tornano in mente ogni volta che sfoglio la rivista Make. Un giorno o l’altro emergerà da queste pagine un qualcosa di così rivoluzionario come l’Altair8800”.

Forrest M. Mims III ha colto il punto: certi retro-computer incarnano bene lo spirito che anima il movimento maker.

A questo punto varrebbe la pena di riscrivere la storia dello sviluppo dei computer non dal punto di vista tecnico ma dal punto di vista dell’impatto che alcune creazioni, prima che invenzioni, hanno avuto sull’immaginario collettivo e sugli aspetti sociali.

Non tutti i prodotti hanno infatti avuto lo stesso valore in termini di spinta sociale verso l’innovazione per un’intera generazione di tecnici e professionisti.

Ad esempio il primo calcolatore commerciale ad usare le architetture a microprocessore dell’Intel fu il Busicom 141-PF nel 1971. Ma oggi nessuno lo ricorda, non ha lasciato alcun segno nella memoria collettiva. Il vero capostipite è stato l’Altair 8800 nel 1975.

Ho quindi pensato di stilare la mia personale storia emozionale del personal computer e ho riflettuto su quelle che sono a mio avviso le pietre miliari che non è possibile ignorare.

Non posso che collocare l’anno zero al 1964, un po’ perché è il mio anno di nascita, un po’ perché è l’anno in cui è stata avviata la produzione industriale della Olivetti Programma 101.

Una pubblicità d’epoca della Olivetti Programma 101. Credits: marcogaleotti.com

Oggi è molto in voga tra i commentatori italiani che si occupano d’innovazione citare la Programma 101 come il primo personal computer della storia. E’ indubbio che lo sia. Orgoglio italiano, prodotto che denota grande vision, anticipo sui tempi, binomio e tecnologia come se fosse stata fatta da Steve Jobs (quando ho mostrato le foto che stavo preparando per questo articolo al più piccolo dei miei figli, 8 anni, mi ha fatto notare che forse stavo sbagliando l’ordine cronologico poiché la calcolatrice Olivetti era palesemente un prodotto fatto oggi, lo capiva dal design!).

In realtà ho deciso di collocarla all’inizio della storia a seguito di un preciso episodio della mia gioventù. Nei primi anni durante il liceo avevo l’hobby dell’elettronica e mi ero appassionato alla programmazione dei primi chip microprocessori.Quando finalmente riuscii ad acquistare una calcolatrice programmabile della Texas Instrument (gli home computer non esistevano ancora) la mostrai a mio padre, geometra e progettista edile, come esempio di oggetto tecnologicamente avanzato. La risposta fu inaspettata:

– “ah, è piccola!

– “No, Papà, è programmabile.

– “Questa non è una novità, anni fa già avevamo in ufficio la Perottina, faceva rumore ma era come questa e in più stampava su nastro i risultati dei calcoli del cemento.

Quindi, senza ombra di dubbio la programmazione senza possedere un mainframe l’ha inventata l’Ing. Pier Giorgio Perotto con la sua Programma 101 e io avrei dovuto fiondarmi verso l’ufficio di mio padre per recuperare la vecchia Perottina che sicuramente era ancora a prendere povere su qualche tavolo prima che finisse definitivamente dismessa e persa nel tempo, anziché dilettarmi con il gingillino elettronico di cui non ricordo più neanche la sigla.

Al secondo posto non può che esserci l’Apollo Guidance Computer.Non era un personal computer, direte voi, tuttavia la mia è una storia emotiva, e nessuno può assolutamente negare che l’idea che la conquista della Luna sia stata possibile solo “grazie al computer” sia un concetto bene impresso nella mente di ogni informatico nel momento in cui decide di essere un informatico.

Non vorrei esagerare ma forse uno diventa un informatico perché per andare sulla Luna è servito il computer e il sillogismo è molto semplice, deriva direttamente dalla cultura science fiction degli anni ‘30-40: futuro uguale conquista dello spazio, conquista dello spazio uguale computer, computer uguale futuro.

Per cui senza computer per conquistare la Luna non ci sarebbero state frotte di smanettoni sugli home computer negli anni ‘80.

Nessuno si sarebbe sentito fico ad essere parte di un movimento culturale che avrebbe avuto come fine ultimo l’automazione del sistema previdenziale nazionale o del sistema interbancario. Invece, programmavamo i nostri home computer, collegati al canale UHF 36 sul televisore portatile nella nostra camera, con la sottile soddisfazione di chi conosce profondamente i segreti tecnologici di un oggetto ben più potente del computer che supportava le missioni Apollo.

Non vorrei deludere qualcuno di voi ma questa storia che il computer delle missioni Apollo fosse meno potente di una calcolatrice programmabile è assolutamente falsa come ho scoperto documentandomi in tempi recenti.

Avete presente come era fatto il computer dell’Apollo? Immagino di no, anche perché per anni è rimasto top secret e quando finalmente nel nuovo millennio i documenti sono divenuti accessibili il mito predominava sulla realtà e nessuno ha mai voglia di approfondire veramente le cose, tranne qualche assurdo appassionato.

E chi poteva essere un assurdo appassionato se non un maker? Proprio un maker americano, di nome John Pultorak, ha pensato bene di recuperare gran parte degli schemi e dei progetti costruttivi per realizzare nel suo garage una replica fatta a mano, con componenti non dell’epoca ma comunque vintage, del primo modello dell’Apollo Guidance Computer. La sua replica funziona perfettamente ed è in grado di eseguire il codice macchina dei programmi originali del progetto Apollo. Tutto il progetto è pubblicamente disponibile in un insieme di file PDF chiamati “The Pultorak’s PDF”.

John Pultorak con la sua replica di AGC. Foto: Carmel Zucker

Purtroppo la sua è la replica del più vecchio prototipo AGC che non ha mai volato nello spazio in missioni con equipaggio umano.La versione installata a bordo delle missioni lunari era successiva e più compatta.

Fortunatamente ci viene incontro un altro progetto open source, dove un centinaio di geek incalliti hanno seguito un genio di nome Ronald Burkey che dopo essere rimasto affascinato dalla scena del film Apollo 13 dove l’astronauta rimasto a terra accende il computer nel simulatore dell’Apollo per trovare la sequenza operativa che consentirà all’equipaggio in orbita di ritornare a casa nonostante i numerosi problemi tecnici incontrati nella missione, ha deciso di sviluppare un simulatore software del mitico computer e recuperare tutti i listati originali del codice sorgente delle varie release usate nelle missioni Apollo.

Ha sviluppato un sistema completo di emulazione e sviluppo di software e assieme ai vari volontari che si sono uniti al progetto sono stati ribattuti a mano tutti i listati creando file ASCII dalle copie cartacee originali.

L’Apollo Guidance Computer. Foto: Wikipedia

Oggi è possibile programmare di nuovo l’Apollo Computer Guidance e utilizzare interattivamente i programmi originali o i programmi da noi sviluppati attraverso la caratteristica interfaccia utente denominata Dsky (si pronuncia dis-kei). Scordatevi monitor e tastiera, siamo nel 1969!

Il progetto di Burkey sta alla storia informatica come Jurassic Park sta alla preistoria.

Non esistono esemplari funzionanti dell’Apollo Guidance Computer sul nostro pianeta. Ne sono stati costruiti solo 57, per ogni missione veniva realizzata una nuova versione hardware. Un esemplare era installato nel simulatore a terra, come si vede nel film Apollo 13, un esemplare era a bordo del modulo di comando e un esemplare identico era a bordo del modulo di allunaggio nella parte che restava sul nostro satellite. Se si considera l’abitudine di smantellare le tecnologie usate dopo le missioni, anche a scopo di segretezza, possiamo affermare che gli unici veri esemplari da collezione dell’Apollo Guidance Computer sono ancora sulla Luna, mentre qui sulla terra qualche reperto sfuso è stato recentemente battuto all’asta con prezzi da quadro di Van Gogh.

Tuttavia grazie al fatto che il software è replicabile come il DNA, l’Apollo Guidance Computer è di nuovo tra noi. Riparleremo di tutto ciò alla fine di questo articolo quando vi illustrerò il progetto che abbiamo in mente al Fablab Roma Makers.Prima dobbiamo proseguire la nostra cronologia, dove al terzo posto troviamo proprio l’Altair 8800 che ha ispirato questo articolo e del quale abbiamo già abbondantemente parlato.

L’Altair era un oggetto di riferimento ma non praticamente acquistabile da un liceale italiano dei primissimi anni ’80, per cui dopo essersi per un po’ cimentati con le primissime calcolatrici programmabili sono arrivati i due eterni rivali: lo ZX Spectrum e il Commodore 64.

In verità il mio primo home computer fu il Commodore Vic 20 mentre alcuni dei miei amici avevano già acquistato un Sinclair ZX80 o ZX81, tuttavia si trattava di macchine che hanno avuto una vita commerciale troppo breve per lasciare realmente un segno nella nascente cultura 8-bit.

Commodore 64 Vs Spectrum. Credits: Stefano Capezzone

Sul Commodore 64, il computer più venduto della storia, e sul più economico rivale della britannica Sinclair si è formata una generazione di programmatori di videogiochi. Molti di noi hanno continuato a programmare su questi home computer per i primi anni dell’università prima di soccombere all’acquisto di un IBM XT compatibile per esigenze di tesi di laurea o lavoro.

Negli anni ’90 era iniziata l’attuale monocultura del personal computer.Oggi nella mia casa, sul tavolo della stanza che dovrebbe essere un soggiorno ma che viene usata come studio, campeggia un modernissimo iMac affiancato nei giorni festivi da occasionali MacBook aperti per sbrigare qualche attività di lavoro.

Sono oggetti fantastici, si collegano ad internet, si possono caricare foto e filmati, Photoshop gira in modo fluido e veloce, se per creatività intendiamo quella delle arti sonore, visuali o grafiche sono lo strumento di supporto ideale e, in teoria, si possono anche programmare, ma dobbiamo scaricare complicati ambienti IDE, pieni di finestre e pulsantini, con l’editor che colora in modo diverso le parole mentre le scrivi e ti ricorda che lui ne sa più di te sulla sintassi del linguaggio di programmazione che pretendi di usare.

Riproduzione della fase di avvio del Commodore 64. Credits: Stefano Capezzone

Se però ti senti un po’ un inventore, e pensi ancora che il vero fine ultimo del computer sia quello di mandare astronavi nello spazio, allora forse tutti quegli strati di software e finestre e mouse e trackpad, tra te e la motherboard nascosta nel cabinet con design all’ultimo grido non sono propriamente fonte di ispirazione per questo tipo di nobile missione a cui il genere umano dovrebbe essere chiamato.

Ammettiamolo, quando accendevamo il Commodore e sul televisore appariva la fatidica schermata azzurrina bordata di azzurrino più chiaro con la scritta “64 RAM SYSTEM 38911 BYTES FREE” e a capo: “READY.” E ancora più sotto il cursore, quadrato, lampeggiante, non ci sentivamo chiamati a qualcosa di più grande?

Accendevi il computer e… voilà, potevi solo scrivere un programma. In BASIC, lo stesso BASIC derivato da quello che Bill aveva sviluppato per l’Altair prima di litigare con la MITS per poi venderlo all’IBM e monoculturizzare gli anni a venire.

Quel cursore non era stimolo e fonte di ispirazione per grandi programmi che avrebbero aiutato l’uomo a colonizzare l’universo?

Personalmente quando compariva quello schermo restavo sempre lì qualche secondo a riflettere se fosse il caso di scrivere qualcosa che negli anni a venire sarebbe stata considerata una pietra miliare nell’informatica, poi, nella maggior parte dei casi il mio lavoro in BASIC si limitava allo statement LOAD per caricare un videogioco dalla audiocassetta, meritato riposo nel corso della pausa durante lo studio tra una materia e l’altra, ma era l’intenzione e lo spirito quelli che contavano.

Ho ritrovato quel tipo di spirito soltanto alcuni anni fa, quando dopo lustri di informatica industriale ho scoperto Arduino.

Non c’è dubbio che quello spirito di innovazione tecnologica che aleggiava negli anni ’80 sia tuttora presente, evoluto e rafforzato, nel movimento maker dei nostri giorni. Per questo ritengo che l’eredità di quelli che oggi chiamiamo retro-computer debba essere coltivata.

E’ significativo quello che racconta nel suo libro Eben Upton, il creatore della Raspberry Pi, a proposito delle motivazioni che lo hanno spinto a sviluppare il suo progetto. Viviamo in un’era dove il computer è pervasivo, definiamo i nostri figli nativi digitali, siamo circondati da applicazioni software sviluppate dai tantissimi programmatori formati negli anni ’80.

I nostri figli usano il computer ma generalmente non sono interessati a programmarlo. Perché dovrebbero? I computer o gli smartphone fanno già tutto quello che devono fare senza bisogno di programmarli. Upton da buon professore di informatica era preoccupato del calo delle iscrizioni ai corsi universitari di computer science. Non era un problema di crisi economica, non ci sono mai state tante applicazioni software quante ne troviamo oggi su ogni tipo di dispositivo, i programmatori servono, sono ancora molto richiesti dal mercato anglosassone. Il problema a suo avviso era dovuto al fatto che nel corso del nuovo millennio si è esaurito l’impeto motivazionale nato negli anni ’80. Mi viene da aggiungere che non siamo più andati sulla Luna e fino a qualche anno fa non sembravamo motivati ad andare su Marte. Ci sono problemi più importanti e terrestri di cui occuparsi, è vero.

La Raspberry Pi è nata per stimolare l’interesse dei più giovani verso la programmazione. E’ una versione attualizzata degli home computer anni ’80. Si chiama Raspberry perche negli anni ’80 molti computer avevano nomi di frutta ad imitazione di Apple, ha il Python di serie (da cui il “Pi” nel nome) ma è anche un PC moderno con tanto di desktop e browser Internet, però nell’ambiente a finestre, sempre di serie, c’è il bellissimo linguaggio visuale Scratch, nato al MIT di Boston per insegnare la programmazione ai bambini.

Si collega al televisore proprio come il Commodore 64 e lo Spectrum. E’ stato uno dei più grandi successi commerciali di tutti i tempi, ne stanno producendo 100.000 al mese. Ha un buon successo come computer per i più giovani, ma la più grossa fascia di mercato è costituita dai maker. Upton ne sembra stupito, ma, se avete avuto la pazienza di seguirmi fin qui, la ragione apparirà ovvia.

La “Raspberry Pi”. Foto: cl.cam.ac.uk

Da circa un mese sul tavolo di quello che avrebbe dovuto essere il mio soggiorno, di fronte all’iMac si staglia un altro monitor di dimensioni analoghe. E’ uno schermo ad altissima risoluzione della Samsung, a cui via HDMI è collegata una Raspberry Pi model B+, racchiusa nel divertente contenitore arcobaleno con top trasparente PiBow di Pimoroni dotata di mouse e tastiera recuperati in un armadio.

Si tratta del computer di mio figlio, il più piccolo, quello di 8 anni. Sta imparando a programmare semplici videogiochi, tipo il vecchio Asteroids, con Scratch.

Non vedevo programmare uno sprite dai tempi del biennio universitario. Nelle pause a volte gioca a Minecraft, di serie sulla Raspberry Pi. Ha scoperto su Internet sul sito della community di Scratch che c’è uno che ha sviluppato una versione di Minecraft con Scratch. E’ affascinato dall’astronautica e possiede diversi modellini dell’Apollo e del razzo Saturn V. Ovviamente.

Ho deciso di recuperare le tecnologie 8-bit e i computer di quella che ho qui indicato come la vera storia dell’home computer.

Dopo un lungo lavoro di ricerca su Internet stiamo per partire. A breve programmeremo al Fablab Roma Makers, un ciclo di incontri sui computer che hanno fatto la storia. Sarà una cosa seria e mai fatta prima.Sono già pronti i simulatori software della Programma 101, dell’Apollo Guidance Computer del quale abbiamo anche il compilatore assembler che come nell’originale gira su un altro computer, dell’Altair 8800 e due esemplari d’epoca del Commodore 64 e del Sinclair ZX Spectrum 48K. Abbiamo inoltre copia delle scansioni dei manuali originali di tutte queste macchine, simulate e non, e abbondanti listati in formato file ASCII e scansione degli originali dei listati del progetto Apollo.

Per l’Altair 8800 a scelta si potrà programmare in linguaggio macchina direttamente in binario con gli interruttori (“real programmers don’t need keyboard”) o attraverso un terminale console facendo girare il CP/M o l’Altair Basic originale.

Durante la cerimonia d’inaugurazione della Maker Faire Roma 2014 ho regalato a nome del nostro Fablab all’astronauta italiana Samanta Cristoforetti il logo della sua missione, denominata Futura, stampato in 3D. Che il nastro rosso della Maker Faire fosse tagliato proprio da un’astronauta ovviamente non è un caso, oramai lo abbiamo capito, così come non è un caso che si sente sempre più spesso parlare di missione su Marte. Serve un nuovo Rinascimento dopo gli oscuri anni di declino, soprattutto in Italia, serve innovazione sociale, innovazione digitale applicata al sociale. Occorre recuperare l’entusiasmo della cultura 8-bit. La conquista dello spazio non è in realtà il vero fine, è la metafora del nostro bisogno di crescita culturale ed economica.

Avete mai pensato di poter programmare la Programma 101 o l’Apollo Guidance Computer? Nell’era dei maker questo non solo è possibile ma doveroso.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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Ha 19 anni, ha inventato il braccio open source e lavora per la Nasa

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