L’economia collaborativa sta dimostrando di essere un fenomeno dirompente. Sebbene non ci siano studi che al momento diano evidenza di quanto sia il suo peso nell’economia reale, ci sono molti dati che dimostrano che è un modello sempre più diffuso sia per numero di servizi proposti (1000 e più le start up “collaborative” censite negli USA, più di 150 le italiane), sia per persone che lo utilizzano (il 52% degli americani e il 64% degli adulti nel Regno Unito ha dichiarato di prendere parte ai servizi collaborativi attivamente).
Quello che sta avvenendo in realtà è molto più profondo di quanto i numeri dicono fino ad ora. Attraverso i servizi collaborativi si sta affermando un nuovo modello progettuale, il p2p, che, disintermediando, ridefinisce e modifica il modo in cui consumiamo – e viviamo – trasformando così, ancora una volta, il rapporto fra aziende e consumatori.
Siamo in una nuova fase di internet, ha detto a Leweb Jeremiah Owyang, partner della società di consulenza Altimeter, e abbiamo raccontato nel libro “Collaboriamo”. Se, infatti, all’inizio c’era internet e l’utente era passivo, con il web 2.0 l’utente si fa persona, e attraverso i social media partecipa alla vita delle aziende (ma anche politica) chiedendo di essere coinvolto e ascoltato. Oggi siamo davanti a una nuova trasformazione in cui le persone diventano “cittadini”, i quali, non avendo più fiducia nelle aziende e nelle istituzioni, non sono più disposti a stare a guardare e utilizzano non più solo internet e social media ma tutte le tecnologie digitali per passare all’azione, dettare le regole, e costruire un futuro migliore.
Condivisione, collaborazione, fiducia negli sconosciuti, disintermediazione, sono abitudini acquisite proprio grazie all’utilizzo delle tecnologie digitali e diventano le basi sulle quali costruire modelli diversi da quelli che la crisi ha dimostrato non funzionare più.
Banche e istituzioni non prestano più denaro? C’è il crowdfunding. Muoversi in macchina è costoso e fa male all’ambiente? Si provi il carpoling, carsharing, carsharing p2p. Il lavoro non c’è? Lo si inventa su piattaforme come Taskrabbit o nei nuovi luoghi di lavoro (coworking). Siamo stufi di accumulare beni nelle nostre case? Scambiamo, noleggiamo, prestiamo. Gli intermediari tradizionali non sono più necessari e delle due l’una, o l’azienda offre davvero un servizio esclusivo, oppure presto dovrà fare i conti con i nuovi cittadini. Emblematico, per esempio, è il caso di Carrotmob, una piattaforma attraverso la quale le persone chiedono alle piccole e grandi imprese di intraprendere buone azioni in cambio della promessa di diventare loro clienti.
Pericolo o opportunità dunque per le aziende? Una domanda che si era posta già all’emergere del cosiddetto web 2.0 e che si ripropone loro in questi giorni.
All’epoca le aziende avevano sottovalutato i social media, oggi quasi tutte hanno almeno una presenza su Facebook per quanto spesso il dialogo con le persone sia più formale che autentico. Quello che si prospetta oggi alle aziende è una sfida simile a quella posta dalle persone qualche anno fa, molto più difficile, ma altrettanto inevitabile.
Jeremiah Owyang nel suo studio ha individuato tre opportunità per le aziende per ripensare in maniera “collaborativa” il proprio modello business, o a parte di esso: trasformarsi in Aziende-Servizio – mettendo cioè in condivisione i propri prodotti-, in Acceleratori di Marketplace – favorendo lo scambio e la vendita diretta di prodotti – o in Fornitrici di Piattaforme – abilitando le persone a creare nuovi prodotti o servizi collaborativi. Un percorso che le aziende possono intraprendere proprio facendo leva su quelle forze abilitatrici sociali (desiderio di comunità, aumento della popolazione, ecc.), economiche (guadagno dai beni superflui, accesso anziché possesso, ecc) e tecnologiche (social network, sistemi di pagamento, dispositivi mobile) che hanno generato e che continuano a guidare lo sviluppo dell’economia collaborativa.
Qualcuno sta già sperimentando. Patagonia, per esempio, attraverso ebay invita i propri clienti ad acquistare e a rimettere in circolo i suoi prodotti usati; Daimler (Car2Go), BMW (DriveNow) e Peugeot (Mu) hanno lanciato un servizio di carsharing mentre General Motors ha firmato una partnership con RelayRides, servizio di carsharing p2p; Walmart sta valutando di utilizzare i cittadini per consegnare gli ordini fatti online, mentre Google si dice stia investendo per introdurre la possibilità di condividere beni tra le persone del proprio network. L’opportunità di sperimentare non è solo quella di aggiudicarsi un vantaggio competitivo, ma anche di valutare nuovi modelli di business (non a caso il mondo dell’automotive, fortemente in crisi, è quello più avanti nella sperimentazione), riconquistare la fiducia delle persone, imparare a conoscere meglio i desideri e le azioni dei nuovi cittadini che, attraverso queste piattaforme collaborative, possono anche essere facilmente tracciati e quindi raggiungibili con altri servizi.
Un’operazione per niente facile, però. Le aziende che vorranno sperimentare questi nuovi modelli progettuali con qualche speranza di successo, dovranno dimostrare di aver capito la trasformazione in atto e dovranno essere disposte a rinnovare non solo il proprio modello di business, ma anche il modo in cui hanno fin qui visto il mercato e i propri consumatori. Perché le piattaforme collaborative crescono e si alimentano solo con la partecipazione dei cittadini e come tali rispondono alle logiche con cui si riuniscono le persone, e non a quelle che un’azienda è abituata a utilizzare. Funzionano quando mettono al centro l’esperienza, generatrice di un reale valore, invece che il prodotto; quando non si parla a clienti ma a membri di una community che si stimola, si rispetta, e si lascia libera; quando si agisce con trasparenza mettendoci la faccia se necessario; quando alla logica del click through, dei follower e dei like (volta cioè a misurare le performance e il ritorno sugli investimenti), si sostituiscono metriche che indicano l’impatto del servizio sul benessere delle persone. Quando insomma si fa cultura, nel senso ampio del termine, oltre che business. Perché è questo che vogliono i nuovi cittadini. Ed è quello che dovranno imparare a fare le aziende se vorranno davvero rispondere ai loro bisogni.
MARTA MAINIERI