( Questo articolo non sarebbe nato senza le conversazioni, le riflessioni, gli scambi di opinione con Tom Halsør, collega e visual journalist per NRK, la compagnia di broadcasting norvegese).
InnoTown è una conferenza che da voce a relatori che raccontano storie piuttosto uniche di business NOT as usual. Quest’anno sedevo nell’audience e c’è stata una storia in particolare che ho avuto la fortuna di ascoltare: la storia del mattoncino Lego.
Dei Lego ricordo molte cose. Ricordo la sensazione del cominciare a costruire senza un obiettivo preciso, ricordo la necessità di intrattenere i fratelli più piccoli con sfide impossibili, ricordo quando era il mio turno dover recuperare centinaia di pezzettini altrimenti niente tv. Ricordo anche le volte in cui ho messo a rischio il silenzio sacro di una casa sospesa in un sonno profondo perchè sono inciampata in un piccolo mattoncino giurando che non c’era nulla di più doloroso e che quei mattoncini, io, li odiavo con tutta me stessa.
La cosa interessante è che forse molti di questi ricordi ci accomunano e accomunano non decine o centinaia, ma milioni di noi. E questi milioni sono oggi la culla di una strategia dalla quale c’è molto da imparare.
Erik Hansen è Senior Director of Open Innovation di Lego, è uno di quei leader che ti colpiscono per i toni umili e gentili e soprattutto per un raro carisma silenzioso che rende molte delle sue affermazioni simili a stelle cadenti: veloci, luminose, inaspettate. Le sue storie hanno tutte un filo comune, la missione Lego: ‘To inspire and develop the builders of tomorrow’, ispirare e far crescere i costruttori di domani, ma Erik aggiunge che è grazie all’Innovazione Aperta che i costruttori di domani possono a loro volta ispirare e far crescere Lego.
Open Innovation è una strategia che alimenta un processo bidirezionale, inside-out ed outside-in, grazie al quale i confini dell’organizzazione spesso si dissolvono e permettono di includere le decine, le centinaia o i milioni di amanti del mattoncino. E questi milioni, dice Erik, con le loro idee, possono sorprenderti, perché il ‘99% delle persone più intelligenti e capaci del mondo, non lavorano per noi’.
La storia lego comincia nel lontano 1949 e da allora a tempi più recenti Lego è sempre stata aperta al concetto di innovazione, ha sempre ascoltato i consigli degli esperti, si è sempre avvalsa della ricerca, ha sempre adottato modelli che in qualche modo fossero garanzia di innovazione. Ma a fine anni novanta Lego si è trovata ad affrontare la sua prima perdita storica.
Negli occhi dei bambini brillavano joystick, non più mattoncini multicolore e in molti erano pronti ad assistere ad una tristissima fine dell’azienda. Spesso il problema risiede nella necessità di innovare il modo in cui facciamo innovazione. L’adozione di modelli come lo Stage-Gate model non è necessariamente una garanzia che si stia innovando nel modo in cui abbiamo bisogno.
Lo Stage-Gate model si è cominciato a diffondere a metà anni ’80, si tratta di un modello che ha lo scopo di guidare il lancio di nuovi prodotti sul mercato attraverso l’alternanza del binomio Stage-Gate, Stadio-Uscita.
I leader di organizzazioni ed aziende hanno modificato il modello originale ed implementato nuove idee e strumenti rendendolo flessibile ed adattabile. Lego ha adottato e adotta lo Stage-Gate model con una tensione verso continue revisioni e modifiche della strategia, con l’idea che nessun modello possa garantire innovazione se diventa una trappola, ostacolo alla possibilità di sovvertire quello che facciamo e come lo facciamo. Ed è qui che l’Open Innovation entra in campo, come strumento che possa alimentare la necessità di rimanere flessibili e sempre sensibili ad ascoltare. Il gruppo Lego è riuscito ad usare la crisi per risolverla, concependo una Innovation Policy fondata su una relazione diversa con l’utente Lego, con i partner Lego, con la concorrenza. Nota importante: una tale strategia non accade in un giorno, è un processo lento frutto di uno shift culturale che attraversa orizzontalmente tutta l’organizzazione, che investe le aree Business, Prodotto, Comunicazione, Processo, che richiede revisioni e sfide continue, che implica slanci di ottimismo ed atti di fiducia, ma anche la risoluzione di tensioni, attriti, conflitti.
Open Innovation è un’espressione usata ed abusata, vuole dire molto se riferita ad un contesto e ad una storia precisa, ma diventa un’espressione trendy e forse a volte priva di senso al di fuori di quel contesto e di quella storia. La storia open di Lego è interessante e propone parole che suonano familiari come crowdsourcing, user driven innovation, co-creation, co-design, co-development, innovation eco-system. Vale a dire che l’organizzazione rappresenta solo una parte del processo innovativo, infatti molto di quel processo succede grazie a users, stakeholders, competitors che l’organizzazione ha l’arduo compito di includere. Progettare l’inclusione, capire se, come e quando includere sono punti critici.
Nel 1998 Lego ha lanciato Mindstorms, un progetto sviluppato in collaborazione con il ’MIT, Massachusetts Institute of Technology. Si trattava di un kit robotico che permette ai bambini dai 10 anni in su di progettare e programmare qualsiasi robot volessero ingegnarsi a costruire. Dopo sette anni di ricerca e sviluppo con un team multidisciplinare che comprendeva i migliori ingegneri Lego, psicologi ed esperti dell’MIT, Lego lancia Mindstorms con la convinzione di lanciare un prodotto fantastico e perfetto. Tre settimane dopo il lancio circa mille hackers si sono appassionati al progetto, hanno cominciato a lavorare e programmare. Il team Lego osservava grazie alla rete: quello che velocemente stava accadendo è che queste mille persone stavano modificando il prodotto. Stavano sviluppando nuovi software, nuovi sensori, nuovi strumenti che miglioravano il prodotto ad una velocità sorprendente.
La prima reazione da parte di Lego fu quella di voler interrompere questo processo che poteva sembrare di violazione del prodotto. Ma – e qui è dove la strategia open entra in gioco a mio avviso – anziché sguinzagliare i propri legali per affermare il controllo su un processo così inaspettato, il team si è riunito per cercare di capire il fenomeno. Chiudete gli occhi e pensate a quanti conflitti interni si saranno generati di fronte a quel fenomeno. Fermarsi a riflettere è stata la cosa più efficace per ridiscutere il senso di una mission aziendale che per essere tale deve tenere conto del mondo che cambia. Se quella mission è ‘To inspire and develop the builders of tomorrow’, bene, di fronte ai loro occhi si stava dispiegando la concretizzazione di quella mission, essere fonte di ispirazione e creatività. ‘Se anziché fermare queste persone, le includiamo e lavoriamo con loro, il prodotto non smetterà mai di migliorare e noi, insieme con loro, non smetteremo mai di imparare’ queste le parole di Erik.
Ed ecco una delle cose che Erik non avrebbe mai immaginato di poter fare con Mindstorms: risolvere il cubo di Rubik. In 10 minuti.
Alcuni anni dopo il primo lancio, quando il team Lego era pronto a lavorare ad una seconda generazione Mindstorms, la prima cosa sensata – non ovvia – che il team ha deciso di fare fu contattare alcuni di quegli appassionati che avevano contribuito a generare l’inaspettato fenomeno. Circa 50 libri erano stati scritti su Lego Mindstorms da appassionati di tutto il mondo e il team Lego ha voluto che molti di questi autori facessero parte, con le loro storie ed intuizioni, del processo di sviluppo della seconda generazione del prodotto. Il risultato ha avuto un enorme successo e quando WIRED ha dedicato a Lego la copertina con il titolo ‘The LEGO Army Wants You’ l’organizzazione ha cominciato a consolidare una reputazione forte di open innovator.
Da un robot che risolveva il cubo di Rubik in 10 minuti nella prima generazione Mindstorms (2004), si è passati all’incredibile record di 5 secondi nella seconda generazione (2011).
Da qui in poi, la relazione tra Lego ed i suoi appassionati si è consolidata alimentando comunità sempre più attive e sempre più grandi. Oggi è un esercito che conta più di dieci milioni di utenti che organizzano eventi e che sono in contatto tra di loro, pronti a contribuire allo sviluppo di nuovi prodotti. Il ruolo di Lego non è progettare solo il prodotto, ma progettare anche il framework, lo scheletro che possa supportare la creatività di queste community.
In Giappone la Lego ha lanciato Cusoo – la parola cusoo, in giapponese, significa esprimi un desiderio. Cusoo è una piattaforma dove è possibile caricare l’idea di un prodotto che io, consumatore, vorrei vedere su uno scaffale. L’idea viene votata da un certo numero di utenti e, quando questo numero raggiunge un determinato limite, l’idea diventa un progetto e, successivamente, un prodotto. L’idea per lo Shinkay 6500, lanciata in Giappone, ha raggiunto 1000 voti in circa 420 giorni ed oggi è sugli scaffali ed è un prodotto a cui LEGO non avrebbe mai pensato. L’idea per il satellite Hayabusa, anch’essa lanciata in Giappone, ha raggiunto 1000 voti in 77 giorni, oggi è sugli scaffali, è il migliore prodotto come vendite sul mercato giapponese ed è un prodotto a cui LEGO non avrebbe mai pensato. Ora indovinate quanti voti ha collezionato l’idea lanciata in Europa di vedere sugli scaffali una versione Lego del gioco Minecraft. In 48 ore, più di diecimila voti.
Quando Lego ha cominciato a consolidare la volontà di rendere sistematica la strategia di Open Innovation ha deciso che fosse importante aprirsi non solo ai consumatori, ma agire su diversi fronti ed aprirsi ad ogni azienda da cui potesse imparare qualcosa su processi di innovazione aperta. Da qui la creazione di un dialogo con 12 grandi aziende come Google, Ideo, Philips, MIT, Firefox, Procter&Gamble, dialogo che si è trasformato in un’altra preziosa lezione per Lego. Alla richiesta di costruire quel dialogo nessuno ha mai detto no, nessuno ha mai reagito con un atteggiamento di sospetto, nessuno ha pensato che fosse più vantaggioso chiudersi. Erik è convinto che ogni azienda che cerchi di implementare una strategia di Open Innovation possa crescere grazie al dialogo con chi tenta di raggiungere un simile obiettivo. Sembra la cosa più ovvia del mondo, ma è molto facile dimenticare l’opportunità di costruire quel dialogo.
Forse il punto più importante della storia, però, è che Open Innovation parte dal talento interno all’azienda ed è necessaria una costante educazione che coinvolga trasversalmente tutta l’organizzazione, che coinvolga ogni singolo individuo che ne fa parte, perché è all’interno che spesso si creano gli attriti e gli ostacoli più grandi. Erik sostiene che quando ci sono paura e scetticismo verso l’apertura è perché c’è una cattiva comunicazione all’interno che impedisce ad alcuni di credere che le innovazioni più radicali non arrivano solo da coloro che lavorano per Lego, ma anche da coloro che sono lì fuori, esperti o non esperti.
L’idea, se vogliamo usare una metafora creata da IDEO, design agency famosissima nel mondo e da anni promotrice di metodi di innovazione aperta, è selezionare ed educare ogni singolo individuo in azienda affinché mentalità, competenze, modo di lavorare, assumano la forma di una T. Il corpo verticale rappresenta la profonda esperienza in una specifica disciplina come possono essere il design, il marketing, l’ingegneria; il corpo orizzontale rappresenta l’abilità di creare connessione con altre discipline e divisioni, la ricerca di altri punti di vista, il desiderio di condividere, di ascoltare e di chiedere o rispondere anche alle domande stupide che sono spesso le domande che ti fanno riflettere due volte e aprire gli occhi. Paura, giudizio, colpa sono parole proibite. Condivisione, interesse, entusiasmo sono obiettivi da perseguire. A tal fine avere strumenti come la piattaforma interna Lego ideas, che consente di condividere idee all’interno dell’azienda, sono fondamentali per motivare tutti a lanciare nuove sfide e a raccogliere input, senza nessuna distinzione di ruolo o area divisionale.
Open Innovation è una questione di Clutch Power, dice Erik. Clutch power vuole dire quanto bene due mattoncini lego si incastrano. Il clutch power è grande quando i mattoncini si incastrano con facilità, sono saldi tra di loro, ma allo stesso tempo sono facili da separare. Il clutch power è diventato una metafora importante associata ad ogni membro dell’azienda, ed è un vero e proprio indicatore calcolato sulla base del grado di partecipazione nelle discussioni, di condivisione di nuove idee, di connessione con la comunità aziendale, di originalità e coraggio a sollevare nuove sfide.
Erik ritiene che Open Innovation non sia una formula universale. Non c’è un solo modo di innovare in maniera aperta, perché ogni azienda ha una sua storia ed un suo contesto. La parola open non è automaticamente sinonimo di successo se l’apertura non è il risultato di un processo consapevole attuato trasversalmente in tutta l’azienda ed esteso in maniera capillare a tutti gli stakeholder, siano essi consumatori, concorrenti, esperti, o aziende che stanno tentando di raccogliere sfide simili alle nostre. Soprattutto, Open Innovation non è una formula che un’azienda semplicemente decide se attuare o no, è forse più un’opportunità che arriva e che, come organizzazione, tu decidi di cogliere o di combattere. Erik ha vissuto il dilemma di quella scelta, e come tutti i dilemmi, quando ancora non conosci come andrà a finire, prendere la decisione migliore non è mai facile ed è importante scavare a fondo nei perché di quello che fai, nella tua mission, non solo nei dettagli di quello che produci o in come lo produci, per costruire la decisione migliore.