Non è affatto finita. Sarebbe stato troppo bello pensare che non avremmo mai più sentito parlare di ISIS. Stavamo quasi per crederci. D’altra parte, è da un pezzo che non arrivano più notizie dai territori, e poi gli americani hanno ucciso il braccio destro militare del Califfo (al-Shishani, il Ceceno) e i russi ormai se ne sono andati.
È questo è il quadro generale che ci si può fare con le notizie che passano le testate giornalistiche allineate e con i talk show televisivi dove tutti si improvvisano analisti.
In più, con l’attentato di Bruxelles, sono tornate anche le chiacchiere da Bar Sport sull’ISIS, anzi abbiamo avuto la conferma che le chiacchiere possano sopravvivere perfino al terrorismo più spietato, al pericolo imminente. E ad alimentarle cinicamente sono personaggi come Edward Luttwak capaci di affermare davanti a milioni di telespettatori, la sera stessa dell’attentato, che: «Loro ci attaccano perché invidiano il nostro stile di vita».
In definitiva, oggi il nostro problema principale non è il terrorismo ma l’informazione.
Il terrorismo c’era e continuerà ad esserci. Quello che invece non ha più ragione d’esistere è il nostro giornalismo: una macchina perfettamente inutile, capace di riportare al pubblico nient’altro che la superficie degli eventi senza fornire ulteriori strumenti per un’analisi più approfondita ed avere idee più chiare su cosa stia realmente accadendo.
Dal marketing geopolitico al marketing della notizia
Se l’obiettivo dei terroristi è di suscitare il panico indebolendo la coesione sociale nei nostri paesi, di accendere i conflitti interni e, in questo modo, far implodere l’Europa, i nostri media stanno dando loro una grossa mano.
Ma chi avrebbe interesse ad ottenere un risultato del genere? A chi farebbe comodo? Come ho spiegato nel mio saggio sull’ISIS, la guerra è il prodotto estremo del marketing geopolitico.
E così come esiste la guerra simmetrica (quella frontale classica), esiste anche una guerra asimmetrica (quella condotta dai terroristi) prodotta da una geopolitica ugualmente “asimmetrica”. Come si può arrivare a comprendere che siamo di fronte ad una guerra per procura se i nostri media, nessuno escluso, continuano a trattare questo conflitto come una guerra tradizionale?
Quindi, scoprire gli interessi e gli obiettivi geopolitici che ci sono dietro è impossibile. Intanto, la propaganda degli alleati riprende su più livelli: analisti sauditi arrivano perfino a “dimostrare” che l’attacco di Bruxelles è stato organizzato da Assad. Per chi ci vuol credere. Ricomincia il marketing della notizia (e, prossimamente, dei dossier), tra forze opposte.
Operazioni raffinatissime di disinformazione le cui prime vittime sono i giornalisti che proprio per questo, a loro volta, non sono in grado di difendere nemmeno noi dalla manipolazione.
Nonostante nel 2014 nelle Tv panarabe come Al-Maydeen siano stati intervistati personaggi del calibro di Sheikh Nabeel Naiem, ex comandante di Al-Qaeda, che ha rivelato con dovizia di particolari il modo in cui gli americani hanno finanziato e addestrato dapprima la sua organizzazione e in seguito i gruppi dei “terroristi moderati” in Iraq e Siria, nessun giornalista da noi si azzarda a citare queste fonti.
Pochi hanno il coraggio di indicare il nodo centrale della questione. E qui Lucia Annunziata sull’ Huffington Post ci stupisce dichiarando che: «È ora che si indichi anche il vero nemico politico che c’è dietro il terrorismo. Cioè che si facciano i nomi degli stati che finanziano questo progetto per i loro fini di dominio. Sappiamo chi sono. Sono nostri alleati, ufficialmente. Ma questa ambiguità diplomatica va rotta. Il costo è alto, e non solo in termini di affari. Il rischio di rotture internazionali interstatali acuisce il pericolo di una precipitazione globale ma se non si chiariscono gli schieramenti di questa guerra, non riusciremo certo a costruire strategie di difesa». Ci stupisce un po’ meno la sua reticenza, quando i nomi e i dati potrebbe citarli benissimo.
Non è ancora finita col terrorismo dell’ISIS
Ma in rete, volendo, le notizie ci sono e sono a disposizione di tutti (compresa la possibilità di parlare direttamente con gli jihadisti). Si tratta soltanto di procurarsele e di unirle fra loro.
Ad esempio: lo scorso 31 gennaio lo Stato Islamico sarebbe entrato in possesso di un grande quantitativo di gas Sarin in Libia. L’hanno riferito “fonti informate” al quotidiano pan-arabo Asharq al Awsat. La notizia non è stata più ripresa. Ma se oggi la collegassimo alla dichiarazione con cui l’ISIS, attraverso l’agenzia Amaq News, ha rivendicato l’attacco di Bruxelles preannunciando un attentato ancora più grande (“Quello che vi aspetta sarà ancora più duro e amaro”) ciò troverebbe ulteriori conferme: gli attacchi di Parigi e di Bruxelles sarebbero “prove generali” per un attacco a sciame di ben più grandi proporzioni in Europa, come è stato confermato da Anonymous e poi dal Mossad .
Da tutto questo si potrebbe concludere che siamo entrati in una nuova fase del conflitto. Se fosse l’ultima, quella cioè in cui il Califfo sarebbe disposto a sacrificare tutte le sue ultime risorse pur di recare il massimo danno all’Occidente, significherebbe che il peggio deve ancora venire. E tutti i segnali oggi indicano questa eventualità come molto probabile.
Abbiamo il diritto di essere informati e il dovere di informarci meglio, per poter affrontare lucidamente quanto potrà accadere. Perché in cauda venenum.
BRUNO BALLARDINISaggista, autore di ISIS, il marketing dell’Apocalisse