Il panorama dei social media, in continua evoluzione, spesso viene interpretato solo alla luce delle abitudini di utilizzo delle persone, mettendo in secondo piano quelle delle organizzazioni. Per monitorare lo stato di sviluppo delle aziende italiane nell’uso di questi luoghi della rete, l’Università IULM dal 2010 ha avviato un osservatorio su quella che viene definita SocialMediAbility.
Da pochi giorni sono stati presentati i risultati della consueta ricerca desk basata su un panel di 720 aziende italiane, appartenenti a 6 diversi settori: alimentare, arredamento, banche, hospitality, moda e B2B (che racchiude manifattura, legno, gomma e plastica, metallurgia).
Come nelle precedenti edizioni, al fine di ottenere risultati rappresentativi dello stato dell’arte del social media marketing nel nostro paese, per ciascun settore sono state valutate, attraverso diversi strumenti e approcci di analisi, 120 aziende casualmente estratte dall’universo di riferimento, ulteriormente segmentate per dimensioni: 40 grandi, 40 medie e 40 piccole.
La prima evidenza che emerge è che non tutte le attività commerciali hanno un sito web. Ne fa a meno un quarto delle organizzazioni, in particolare le piccole imprese del comparto B2B.Per quanto riguarda i social media, la percentuale delle aziende che ne utilizza almeno uno per le attività di comunicazione e marketing passa dal 64% del 2013 al 73% del 2015. Anche qui il valore è abbassato da quelle di dimensioni medie (67%) e piccole (62%).
Se poi si va a consultare i loro siti per vedere se c’è traccia della presenza social si scopre che ben il 18% ha deciso di non darne notizia, forse per sbadataggine o per convinzioni che hanno poco di logico.
Ma quali sono i luoghi preferiti per fare social media marketing? Il 79% è presente su Facebook, il 55% su YouTube e su Google Plus, il 48% su Twitter, il 45% su Linkedin.
Solo il 34% sceglie Instagram e il 30% già sperimenta Pinterest.Guardando questi dati sembra proprio che molti abbiano le idee poco chiare sulle potenzialità attuali di alcuni luoghi nella rete e nel capire dove valga la pena investire le proprie risorse (qui i dati di utilizzo di Instagram).
Questa presenza, però, non necessariamente si traduce in una cura costante della stessa. E infatti mediamente i tassi di inattività su Facebook sono del 16,5% (con punte del 25% per l’hospitality) mentre su Twitter si aggirano attorno al 19% (con il B2B a quota 37,5%). Probabile segno di una sottovalutazione delle risorse e del tempo che queste attività di comunicazione richiedono.
Un’analisi più qualitativa ha fatto luce sulla tipologia di gestione dei presidi aziendali.
Sia su Facebook che su Twitter solo la metà delle aziende mostra un approccio coordinato e continuativo di comunicazione. Sul primo network il 40% pubblica prevalentemente post informativi/promozionali di prodotto, sul secondo emerge anche la spiccata tendenza a rilanciare semplicemente eventi che si svolgono online e offline. Bassa in entrambi i casi la percentuale di aziende che puntano a stimolare una relazione/reazione delle persone.
Per sintetizzare la qualità del social media marketing delle organizzazioni monitorate, lo IULM ha fatto ricorso ad un indice di SocialMediAbility (SMA) che, su una scala da 0 a 10, racchiude i punteggi ricavati da 5 indicatori complessi (perché ottenuti osservando diversi KPI). In particolare: l’Orientamento (es. numero di account social, tempo di attivazione, tasso di attività, ecc.), la Gestione (numero di contenuti pubblicati, frequenza di aggiornamento, ecc.) la Reachness (varie metriche relative all’audience raggiunta), l’Engagement (diversi KPI relativi alle performance dei post), il Caring (metriche di risposta agli utenti).
In definitiva emerge che la maggiore diffusione dei canali social a livello aziendale è stata accompagnata da una modesta crescita dell’indice medio complessivo di SocialMediAbility che passa dai 3,6 punti del 2013 ai 4,2 punti dell’ultima rilevazione.
Ad abbassare tale indice è il ritardo registrato nella capacità di fornire agli utenti l’assistenza richiesta attraverso Twitter e Facebook. Come ha sottolineato il professor Di Fraia “la dimensione relazionale rimane indietro e i canali sono sotto-utilizzati per prendersi cura del rapporto con i clienti. Essi si concentrano prettamente su attività di corporate branding (awareness) e social media marketing (di prodotto), sviluppando una comunicazione che è per lo più auto-referenziale e centrata sul brand, sui prodotti o sui servizi offerti, e non presta attenzione all’ascolto o al customer care”.
La ricerca completa, ricca di spunti ulteriori, può essere consultata su Slideshare.