Io amo l’Italia.
Amo gli italiani, l’italiano, gli odori, i modi, i sapori, la varietà dei paesaggi, le stagioni, le persone che si guardano negli occhi, gli abbracci, condividere i momenti tristi, lo sconforto, amo le relazioni familiari (anche complicate), il lei (anche se mi accorgo di confondermi quando lo uso ora), amo la forma dell’Italia: sulla cartina mi sembra la più bella di tutte le nazioni. Sono orgogliosa di avere ricevuto una educazione eccellente e di non avere un euro di debito, a differenza dei miei coetanei americani.
Amo il design, gli inviti a pranzo, l’estate caldissima, il mare, le regioni. I treni (perfino i treni ho imparato ad apprezzare qui che da San Francisco a Los Angeles un treno sarebbe così comodo, ma non c’è).
Per tutte queste ragioni, penso continuamente di tornare. Pianifico il mio ritorno in Italia, elaboro strategie, immagino la mia casa, scelgo la mia città, valuto i pro e i contro di Milano, i pro e i contro di un piccolo paese, la vicinanza agli aeroporti, alle stazioni: sogno a occhi aperti, spesso, di tornare. Sogno di portare in Italia la mia azienda e di farla crescere da lì.
Poi però, ogni volta, arriva quel momento in cui il sogno diventa più dettagliato, e inizio a preoccuparmi.
Finché ho vissuto in Italia ho sentito questa forza invisibile a trattenermi, a sussurrarmi di andare più piano ogni volta che volevo accelerare. Di sognare più piccolo quando volevo capovolgere le cose. “Chi ti credi di essere?” questo mi sono sentita sussurrare tante volte.
Certe volte non era un sussurro, certe volte me l’hanno gridato.
Come quando un anno fa in un centro di innovazione importante ho preteso che un contratto di una pagina (un contratto di soli 8 punti) venisse rispettato e mi hanno detto che mi stavo comportando come un CEO di sessant’anni. Come quando ho pensato che avrei potuto creare uno studio sperimentale con i miei compagni di accademia fuori dalle ore scolastiche, perché mi sentivo responsabile di quello che il teatro sarebbe stato per la mia generazione e volevo che provassimo senza insegnanti a creare una cosa nuova e mi hanno guardato come se fossi esaltata e un po’ scema. Come quando non trovavo nessun lavoro e ho chiesto aiuto a un mio amico che lavorava in TV e lui attraverso un suo amico mi ha trovato un lavoro a Brugherio: spazzare via le briciole dei cornetti che si mangiavano quelli che venivano a girare le pubblicità della Vodafone con le veline e il Gabibbo.
Una volta stavano organizzando un evento per la presentazione di una nuova collezione di manichini, ebbero la bontà d’animo di farmi vedere dei bozzetti e espressi un’opinione su come secondo me poteva essere migliorato in alcuni punti. Non mi hanno più chiamato. Poi ho trovato altri due lavori: distribuire i buoni del prosciutto di Parma al supermercato, e intervistare donne al supermercato per la pubblicità di Ace Candeggina. Le mie colleghe a fine giornata avevano intervistato 9/10 persone a testa, io ne avevo intervistate 90. Avevo sperato che questo attirasse l’attenzione dei produttori della pubblicità, ma no.
Io non penso che tutti debbano fare gli imprenditori. Non giudico le persone sulla base del lavoro che hanno. Sono sempre felice e curiosa di conoscere persone che fanno lavori molto diversi dal mio. Credo, però, che l’atteggiamento nei confronti dell’ambizione e del talento nel nostro Paese sia desolante. Quando fantastico sul tornare stabilmente in Italia, questa è la cosa che mi spaventa di più.
È la codardia. Siamo sempre stati così codardi? Abbiamo sempre avuto bisogno che fosse qualcun altro a dirci se qualcosa aveva del valore o meno?
Credo che l’ostacolo principale all’innovazione e alla crescita del nostro Paese non sia l’assenza di capitale, non credo si tratti delle dimensioni del mercato, della burocrazia, dei sindacati, dell’instabilità politica. Credo si tratti principalmente di una codardia diffusa, di una passione per le cose fatte a metà. Perché finché rimani a metà, puoi sempre tornare indietro. Puoi sempre dire che tu non c’entravi niente. Che non era nelle tue intenzioni. Finché sei a metà di una cosa conta se va bene, ma se non va bene non si nota più di tanto. Dentro di te magari un po’ lo sai che sei rimasto a metà, che non hai completato l’opera, ma tanto se non la completi non rischi di dare fastidio a nessuno e anche quelli intorno a te sono mediamente tutti contenti.
Se però arrivato a metà c’è accanto a te uno che non si vuole fermare, che vuole provare ad andare fino in fondo, allora tu ti senti giudicato, e lì parte quello sguardo, lo sguardo che temo di più al mondo: “chi ti credi di essere?”.
Dopo poco più di due anni mi rendo conto che liberarmi della paura di ricevere quello sguardo è la cosa che ho trovato più bella della California. L’audacia, l’ambizione, il coraggio sono incoraggiate attivamente dalle persone che ho intorno qui. Ovviamente, questo genera una enorme quantità di arroganza, ma anche una enorme libertà creativa. Quando sogno di tornare in Italia mi chiedo se riuscirei a conservare questa libertà, questa audacia, o se dovrei rinunciarci e se quello è il prezzo da pagare per costruire il mio futuro nel mio Paese.
FRANCESCA CAVALLOReblog da A Mezzogiorno