I social network crescono tutto intorno a noi. È il caso di CircleMe, la piattaforma che trasferisce la Rete nei luoghi reali. Ce la racconta il suo founder Erik Lumer, da poco reduce dall’esperienza di Design Impossible.
“Quando il sole della cultura è basso sull’orizzonte, anche i nani proiettano lunghe ombre” (Karl Kraus)
Si parla tanto di crisi economica ma in realtà la crisi oggi è morale ed intellettuale. Non è una sorpresa. Sapevamo da tempo che la cultura occidentale sarebbe entrata in recessione e che il baricentro mondiale si sarebbe spostato. Tutto ha un ciclo vitale e Il nostro modello sociale basato sulla crescita e sul benessere materiale ha probabilmente raggiunto i suoi limiti.
Per i giovani, quel che sembra un disastro – un’intera generazione esposta al declino delle prospettive – può tuttavia rivelarsi una Bonanza: tutto deve essere reimpostato dalle fondamenta; bisogna reinventare i modelli della prossima civiltà.
Questa necessità di mutamento crea straordinarie nuove opportunità per le menti fresche.
È qui che anche la cultura – quella non stabilizzata di cui parla Freeman Dyson – e più specificamente l’arte, hanno un ruolo essenziale. Perché esse contribuiscono a sedimentare i nuovi valori della società. L’artista lascia dietro di sé delle opere che, apparentemente prive di qualsiasi utilità e senza nessuna destinazione d’uso, sono testimonianze uniche che hanno la forza di determinare un profondo impatto sulla formazione collettiva.
È con questa consapevolezza che mi sono recentemente trovato protagonista in due iniziative collegate: CircleMe e Design Impossible. La prima è una nuova rete sociale pensata per promuovere la sfera degli interessi personali e la loro condivisione fra persone con sensibilità culturali affini (invece che soltanto tra ‘’amici”).
CircleMe cerca di riempire uno spazio lasciato aperto dai big social networks, che privilegiano una condivisione effimera di immagini o di notizie-snack. Una particolarità: lanciato a marzo di quest’anno sul Web e su iPhone, è una app che consente di lasciare (“piantare” nel gergo di CircleMe) dei riferimenti a cose che amiamo nei luoghi che le evocano, così da creare nuove occasioni di disseminazione della cultura nelle città.
L’idea di Design Impossible invece è nata in un lampo dieci giorni prima del Salone del Mobile 2012. Leggevo un’intervista del designer-guru Philippe Starck. Alla domanda “Qual è l’oggetto perfetto che nessuno ha ancora disegnato?” Starck rispose: “Forse l’utopia. Ce n’era tanta, prima: era basilare per costruire se stessi. Chi nasce ora, invece, non ha tracce per indirizzare sogni, ambizioni, desideri“.
Rimasi colpito da queste parole e pensai: perché non fare una mostra virtuale durante la settimana del design utilizzando CircleMe per piantare nella città progetti virtuali utopici? Invece di proporre un’altra sedia o un altro bicchiere, questa mostra avrebbe potuto focalizzarsi su visioni concettuali che contribuiscono a reindirizzare verso il futuro i nostri sogni, le ambizioni e i desideri. Ho chiesto a Ludovica Lumer, pioniera nel campo della neuro-estetica (nonché mia moglie) che lavora da anni con artisti a livello internazionale, di curare la mostra.
Tre giorni dopo, avevamo confermato le partecipazioni di cinque artisti di fama mondiale: Vito Acconci con il suo Studio, Alexander Brodsky, Alexander Ponomarev, Denis Santachiara e Giorgio Vigna hanno elaborato lavori programmaticamente impossibili che prendono le distanze dalla materialità per concentrarsi invece sull’azione creativa e il cambiamento culturale. L’iniziativa raccolse subito l’appoggio del Museo del novecento, che espone un’installazione fisica di uno degli artisti scelti, Alexander Brodsky – probabilmente l’architetto più amato oggi in Russia.
La mostra Design Impossible, concepita e realizzata in dieci giorni, fu aperta il 17 Aprile con un discreto riscontro da parte del pubblico e dei media. Ora lavoriamo per trasportare l’iniziativa in altre metropoli europee e statunitensi.
Due fatti in particolare mi sono rimasti impressi dalla prima edizione di Design Impossible. In primis, il coinvolgimento di Vito Acconci, artista e architetto di 72 anni basato a Brooklin al quale la Tate Modern ha appena dedicato una sala intera per esporne le leggendarie installazioni. Mentre Acconci avrebbe potuto ignorare il nostro insolito invito o rispolverare per l’occasione qualche vecchio progetto, ha scelto di realizzare con i suoi collaboratori in meno di una settimana un ex-novo meraviglioso, perché riteneva che quest’approccio avesse più senso per il luogo scelto per l’installazione: Piazza del Duomo.
Poi c’è il progetto utopico di urne personalizzate ideato dal designer italiano già premiato col Compasso d’oro, Denis Santachiara. Oltre a Design Impossible, Denis partecipava anche quest’anno con i suoi studenti ad un’altra iniziativa del Fuorisalone, quella di progetti autoprodotti ospitata alla Fabbrica del Vapore. Forse la capacità di concepire progetti (quasi) impossibili, insieme alla moltiplicazione dei modelli in rete di autoproduzione – stampante 3D, integrazione dei saperi, de-materializzazione, crowdfunding – sono due chiavi essenziali per un rinnovo culturale ed economico.
Può sembrare paradossale parlare di utopia in un momento di grave crisi che richiede, per fare fronte all’emergenza, una cura intensiva di austerità e realismo. Tuttavia, quando si deve entrare al pronto soccorso, si spera che sia per un tempo breve e, ad ogni modo, qualora se ne esca vivi, lo scopo è di poter ricominciare a concepire il futuro.
Quando a 22 anni sono sbarcato in California per iniziare il mio dottorato di ricerca alla Stanford University, seguii durante il primo trimestre un corso per me molto arduo con un professore di appena 40 anni. All’ultima lezione, ci lasciò con questo consiglio: “Lavorate su progetti che tutti considerano impossibili, ma in cui voi tuttavia crediate”. Qualche anno dopo, vinse il Nobel per la fisica. Oggi Steven Chu è segretario per l’energia nell’amministrazione del Presidente Obama.
Londra, 10 maggio 2012ERIK LUMER