Qui a Londra tifo per l’Italia, ma so che nulla sarà più come prima

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Londra. Il Medioevo è stato un’epoca di mezzo tra un’era imponente e un periodo di rigoglio. L’Italia non sta vivendo un momento simile, data la mancanza d’imponenza dei passati cinquanta anni e ipotizzando un futuro che non sarà poi così rigoglioso. Il momento economico, chiamato da molti “crisi”, è in realtà un riassestamento di poteri. Il PIL mondiale continua a crescere, nuovi paesi emergono, mentre le economie più consunte – alcune più di altre – fanno vedere i segni delle proprie emorragie. Secondo le stime di Trading Economics, Cina, India, Brasile, Indonesia e Malesia continueranno a crescere velocemente. Noi continueremo a decrescere, ma non tutta la crisi vien per nuocere.

Il peso relativo dell’Italia è destinato a diminuire sia a livello globale, che su scala continentale.

Nel 1990 l’Italia era il 14esimo paese al mondo per PIL pro capite (3% in più della Germania e 12% in più del Regno Unito). Nel 2012, secondo il Fondo Monetario Internazionale, siamo al 26esimo posto al mondo con 33,115 dollari di PIL pro capite, inferiore del 20% rispetto a quello tedesco e del 15% rispetto a quello britannico. Questo trend è destinato a continuare anche nel prossimo futuro.

A differenza di quanto si possa pensare, però, le difficoltà in cui ci siamo ritrovati offrono delle grandi possibilità. A ogni rischio corrisponde difatti un’opportunità e, se è vero che non ci sederemo al tavolo dei vincitori ancora una volta, avremo però la grande occasione di creare qualcosa insieme: abbiamo capito che le cose non possono andare avanti in questo modo e che dobbiamo cambiare la realtà sociale ed economica di cui facciamo parte.

Pena una crisi perenne.

“Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani” scrisse nel 1867 un Massimo D’Azeglio ancora così terribilmente attuale.

IL PROBLEMA ITALIANO IN PROSPETTIVA: LA MANCANZA DI SOFT POWER E LE ECCELLENZE PERDUTE PER STRADA

Più di 100 anni dopo la frase di D’Azeglio, per precisione nel 1990, il politologo americano Joseph Nye ha definito il concetto di potere come “la capacità di influenzare il comportamento degli altri per ottenere quello che si vuole.” Il passo da D’Azeglio a Nye sembra lungo, ma in realtà le similarità non mancano. L’Italia ha un ridotto potere d’influenzare gli altri con il proprio tessuto economico e con la propria cultura perché non ha ben capito quale immagine vendere.

In cosa siamo bravi? Qual è il sogno che vogliamo rappresentare?

La mediocrità italiana ai tavoli internazionali non è appunto solo un problema produttivo e politico. E’ un’emorragia culturale che va a intaccare settori chiave della nostra economia. Per essere competitivi dobbiamo capire chi siamo, cosa possiamo fare e su cosa vogliamo puntare. Il Made in Italy, fino a poco tempo fa un gran valore e una chiara risorsa, sta decadendo per mancanza di una chiara specializzazione.

La mancanza di specializzazione si accompagna anche a un indebolimento dei settori strategici e potenzialmente sostenibili anche nel medio-lungo periodo. Qualche anno fa, per esempio, la moda italiana aveva costruito un’aura commerciale all’apparenza inossidabile. Ora nuovi poli culturali sorgono come funghi – in primis nei Paesi Scandinavi – e Parigi si sta riprendendo parte di quella centralità rubatale negli anni ’80 e ’90. Le conseguenze si faranno sentire nel tempo, ma si possono già desumere senza troppi sforzi. A Londra o a Berlino le signore di una certa età apprezzano ancora Valentino e Armani. I trentenni riconoscono ancora la magnificenza di Prada, ma i ventenni parlano di una moda diversa. Mentre Burberry e McQueen lasciano le passerelle di Milano e tornano a Londra, anche le nuove leve tricolori faticano.

La London Collections uomo in due stagioni ha stritolato Pitti e sta dando filo da torcere a Milano perché gli inglesi, oltre a promuovere i talenti locali in cento modi, li aiutano anche a vendere. Per esempio a Parigi hanno uno showroom London Collections dove i giovani designer hanno spazio e aiuto per incontrare i buyers. Spesso la London Collections gli paga pure il viaggio” dice Riccardo Giorgio Emilio Slavik, professore all’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano.

Le stesse difficoltà si possono desumere da un altro settore tipicamente italiano: il turismo. Secondo il rapporto “Quarterly Report Q2/2103” redatto dall’organizzazione responsabile della promozione del turismo in Europa (European Travel Commission), l’Italia è il secondo peggiore performer in Europa dopo Cipro per capacità di attrarre nuovo turismo internazionale. Confrontando il numero di visitatori stranieri nei primi sei mesi del 2013 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, l’Italia ha perso quasi il 5% dei turisti. E questo accadeva mentre paesi meno quotati come Islanda e Slovacchia aumentavano il numero di visite rispettivamente del 29.9% e 20%. I turisti ci sono ed è responsabilità di tutta la popolazione se gli stranieri preferiscono altre coste, altre città e altri modi per rilassarsi.

Sfortunatamente per noi, la perdita di competitività non si limita alla moda e al turismo. Anche la tradizione culinaria è a un crocevia. E questo è chiaro alle persone che risiedono a Londra.

La prima volta che sono andato nella capitale britannica, 15 anni fa, mi sembrava di stare a casa più di quanto mi sarei mai aspettato. C’erano più ristoranti italiani a Soho che nel quartiere milanese dove sono cresciuto. Le cose stanno però cambiando e molti ristoranti tricolori lasciano il passo ai più dietetici e “sani” asiatici. I giapponesi, i tailandesi, i vietnamiti, i cinesi stanno prendendo il passo. Il cibo asiatico è più veloce da mangiare e meglio si confà alle mode e alle velocità del momento. La tradizione italiana arranca e propone ancora ricette grandiose forse, però, di altri tempi.

Questo non vuol dire che le possibilità non ci siano o che i prodotti Made in Italy non abbiano mercato. Peroni e Nastro Azzurro vanno alla grande a Londra. Lo stesso si potrebbe dire per l’acqua Panna e l’acqua San Pellegrino. Peccato però che le birre appartengano alla società britannica SABMiller dal 2005 e Nestlé abbia acquisito il controllo del Gruppo San Pellegrino nel 1997. I margini di crescita ci sono, ma solo pochi riescono a sfruttarli. Non investiamo abbastanza nel futuro e perdiamo anche la forza delle nostre eccellenze.

Triste verità: la moda, il cibo e il turismo Made in Italy non sono più una garanzia di sicurezza. Il brand tricolore sta lasciando il passo alle bandiere dei paesi del Nord Europa e in parte dell’Est Europa. Non è difficile intuire che l’Italia sia uno dei paesi che zoppica di più nel continente che va peggio al mondo. Altri paesi europei ci stanno prendendo un pezzo di coperta con cui siamo abituati a coprirci, mentre la concorrenza internazionale fabbrica nuove trapunte a condizioni più allettanti. Perdiamo terreno nei confronti di quasi tutti. Di quelli che emergono e di quelli che sono già emersi. Il motivo è da ricercare nelle mancanze del tessuto politico, economico e sociale, che si è fatto trovare impreparato all’ondata di globalizzazione degli anni ‘90. Non abbiamo capito cosa potevamo offrire su scala globale e abbiamo perso qualsiasi centralità.

I nostri errori dovrebbero essere delle lezioni per il futuro.

A poche settimane dallo storico accordo raggiunto a Bali dai 159 membri dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), è chiaro che gli scambi internazionali globali siano destinati ad aumentare. Secondo la Camera di commercio internazionale il costo del trasporto su nave diminuirà del 10-15% nei prossimi due anni e questo automaticamente implica nuove opportunità per le imprese italiane che esportano, ma anche nuova competizione. Sarà mica il caso di farci trovare pronti questa volta?

L’OPPORTUNITA’ ITALIANA: TROVARE FINALMENTE UN’IDENTITA’

Tutto ciò potrebbe suonare tendenzialmente nazionalista. E in un senso lo è. Abbiamo bisogno di trovare un motivo per essere orgogliosi. Dobbiamo trovare un modo per aprire gli occhi sulle nostre fortune e sulle nostre potenzialità, per creare l’entusiasmo necessario a costruire un paese. Dietro tutte le difficoltà, le peripezie funamboliche e i rischi imminenti, si nasconde infatti un’incredibile opportunità: costruire l’Italia e farla funzionare.

La creazione di un vero Paese non è solo una necessità – è anche uno scenario possibile. Questo perché le cose stanno cambiando e l’economia italiana si sta dimostrando troppo emorragica per rimanere in piedi. La torta italiana si sta seccando e rimpicciolendo sempre più. Sta diventando sempre meno appetitosa e sarebbe troppo rischioso farla scomparire del tutto. Non è nell’interesse di nessuno. Sarebbe un’enorme perdita per tutte le persone che hanno proprietà in Italia. Anche per quelli, giovani e meno giovani, che l’Italia l’hanno lasciata per trovare un lavoro decente. Ma che hanno lasciato le loro piccole o grandi eredità nel paese di provenienza.

BEN POCHI SI POSSONO SAZIARE CON UNA TORTA COSI PICCOLA

Il momento drammatico vissuto dal nostro Paese è forse l’ultima possibilità per fare quello che, finora, non è mai stato tentato con serietà: trovare la voglia di capirci senza sputarci in faccia, progettare insieme cosa vogliamo diventare e, soprattutto, sentirci finalmente orgogliosi di essere italiani. Italiani consapevoli di quello che succede fuori dal nostro orticello. Italiani che abbiano voglia di studiare per trovare le opportunità nelle difficoltà. Italiani che sappiano imparare dagli altri senza scivolare nel nazionalismo più becero o in un campanilismo ideologico senza fondamento. Dobbiamo essere pronti a vivere il nostro Medio-Credo. Dobbiamo promuovere un cambiamento culturale. Dobbiamo capire quale posto ritagliarci nel mondo, gratificando le esigenze locali e inserendoci in mercati globali. Dobbiamo vivere questo terremoto come un’opportunità, un’occasione per costruire qualcosa di più saldo e comodo.

Il cambiamento sembra talmente difficile da essere quasi impossibile, ma è più facile di quanto si possa pensare. Come dimostrano paesi come la Danimarca e la Gran Bretagna, l’orgoglio e l’entusiasmo sono grandi risorse. Se dopo il terremoto non ci si alza le maniche, la catastrofe è solo all’inizio.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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