Sempre on the road. La prossima settimana sono a Bruxelles per parlare di scienza. Ad essere precisa, vado cercare di convincere una banda di ragazzine che fare la ricercatrice è divertente, gratificante ed emozionante. E a spiegare che stare in laboratorio non è roba da sfigati. Farlo capire a un gruppo di ragazzi non è facile: pensate che contraddizione, nella testa dei bambini i ricercatori hanno ancora il fascino dello scienziato pazzo, quello che crea, che inventa ma per chi va al liceo non ci sono miti che tengano. Chi fa ricerca non è assolutamente cool.
A dire il vero, ho anche un altro obiettivo, forse ancora più importante: spiegare alle ragazze che possono fare le ricercatrici di successo e avere una vita normale.
E farsi una famiglia come tutte le altre donne al mondo. Intanto diciamolo forte e chiaro. La ricerca non è per tutti. Per avanzare nel mondo scientifico sono necessarie alcune caratteristiche essenziali: motivazione, passione e determinazione a sostegno di una mente talentuosa. È una vita difficile, ma questo non significa che non sia adatta alle donne. E alle madri di famiglia.
La domanda è questa: perché non ci sono donne di scienza affermate in Italia? Perché non siamo tante – almeno quanto lo sono gli uomini? Non sto parlando di superstar o wonder woman, ma di persone che fanno il loro lavoro al meglio e, per questo, ottengono riconoscimenti importanti, per sé, per il loro gruppo di lavoro, per il loro paese. E, perché no, per il loro genere.
I modelli di riferimento che abbiamo – Rita Levi Montalcini e Margherita Hack (scienziate incredibili per tutto quello che hanno fatto e che continuano a fare) – rispecchiano un immaginario femminile di altri tempi, dove per essere affermate le donne erano costrette a dedicare gran parte della propria vita alla scienza.
Ma per essere una ricercatrice di successo non è indispensabile immolare la propria vita di donna, la maternità o le gioie della vita: è possibile trovare una via di mezzo. E ci sono buone ragioni per farlo.
Primo: l’Italia è un paese dove, da anni, in molte facoltà universitarie le ragazze sono più brave dei colleghi maschi. Questa non è una realtà solo italiana ma mondiale. E non parlo solo di corsi in lettere o psicologia.
Nelle facoltà di medicina e veterinaria di Edimburgo, per esempio, l’80% degli iscritti è di sesso femminile. A eccezione di facoltà quali fisica, ingegneria e matematica, pressoché in tutte le altre discipline umanistiche e scientifiche si laureano molte più ragazze rispetto ai ragazzi.
E c’è anche da dire che lo fanno con voti migliori e in tempi più brevi rispetto ai colleghi maschi. Questo significa che paesi come l’Italia sfornano ogni anno migliaia di laureate e che, ipotizzando di investire risorse su 100 giovani, per certi settori – come il mio – 70 sono donne. Eppure, anche se la bilancia è a loro favore, pochissime riescono a raggiungere livelli apicali all’interno della comunità (anche quella) scientifica. Questo fenomeno è conosciuto come il “soffitto di vetro”, ovvero il limite invalicabile e invisibile che le donne non riescono a superare.
Secondo – la diversità nella ricerca è come l’acqua della pasta, è il liquido attraverso il quale le idee si trasformano e assumono una dimensione innovativa. Diversità di genere, intanto e poi di cultura, di etnia e di origine. Quindi i team di ricerca dovrebbero essere costituiti 50/50 da maschi e femmine, egualmente distribuiti nei ruoli e nelle responsabilità. Non è accettabile che i ruoli apicali siano per la stragrande maggioranza rivestiti dai maschi, e le femmine si accontentino sempre di fare il tecnico laureato.
Ma perché le donne restano intrappolate in questa gabbia? Spesso si tende a dare la colpa al sistema, al potere che per gran parte è in mano a persone di sesso maschile, al fatto che le donne vengano discriminate sul posto di lavoro. Vi sembrerà strano, ma non è difficile imbattersi in qualche donna che faccia un bello sforzo di autocritica.
Vi faccio una domanda: quante donne hanno il desiderio di emergere? Il che significa una strada tutta in salita, con delle sberle che ti lasciano con il mal di collo per una settimana, rimettersi in sesto e ripartire subito con l’entusiasmo di essere consapevole di poter vincere la partita. Quante donne non si lasciano andare a tentazioni (anche mediate da ormoni) di vivere il lavoro come un’attività di secondaria importanza e quindi scelgono di non lottare?
Prima di dare la colpa al sistema, che di colpe ne ha tante guardiamoci dentro – e capiamo se il primo e unico elemento determinante per il successo di una operazione impegnativa c’è: il desiderio, la voglia, la benzina. Non sarà che la maggior parte delle donne oggi trova più comodo un lavoro meno impegnativo, meno faticoso, anche meno pericoloso perché in fondo in fondo non si mettono realmente in gioco?
Se ci penso mi viene una gran rabbia. Per noi stesse, per quello in cui abbiamo creduto, ma anche per il nostro paese e per i nostri figli, tiriamo fuori la grinta, i denti, le unghie, la forza e la capacità organizzativa che tanto millantiamo e osiamo. Osiamo immaginare di vincere un Premio Nobel, di diventare un grande cardiochirurgo che salva la vita alle persone o qualcuno che ha avuto un’idea rivoluzionaria. E, allo stesso tempo, essere delle donne realizzate, che mettono a frutto gli anni passati a studiare e a prendere i voti migliori, e certamente con una famiglia intorno.
A Bruxelles vorrei davvero convincere qualche ragazza che, un giorno, quel soffitto di vetro riusciremo a sfondarlo. Ne parlerò domenica prossima anche a Bologna, all’Arena del Sole durante la manifestazione “Next – la Repubblica delle Idee”. Se non ora quando?
Padova, 12 giugno 2012ILARIA CAPUA