Spesso mi chiedo se esistano periodi storici effettivamente, ragionevolmente, tranquillamente, stazionari. Oppure se i cambiamenti, le crisi, i travagli epocali siano proprio fatti inerenti la natura umana che ci sconvolgano sistematicamente, come terremoti frequenti e imprevedibili, qualunque sia la nostra data di nascita. In fin dei conti non si scampa: una sofferente transizione, volente o nolente te la becchi comunque.
Dico questo in qualità di padre di tre figli dei quali almeno uno, adesso quindicenne, è con certezza un “nativo digitale”.
Tommaso frequenta la seconda liceo classico. La scuola usa il registro elettronico, qualcosina nel rapporto con le famiglie si può fare via web.
La sostanza tuttavia, salvo due o tre spruzzate di internet, è ferma a dieci o venti anni fa.
Alcuni dettagli fanno quasi tenerezza. Il libro di matematica o quello di inglese comprati quest’anno portano, appiccicato alla copertina, la bustina di plastica con un DVD, intonso, mai aperto. Un guizzo tecnologico deliziosamente retrò anche perché l’unità in grado di leggerlo è ormai introvabile su qualsiasi portatile.
Credits: pcmag.com
Ma, a ben pensarci, il buon giorno si vede dal mattino. E due anni fa, all’open day del più antico e glorioso liceo classico della città, invece di spettinarci con una travolgente ventata di arti liberali, propinano il sacro pellegrinaggio verso l’aula informatica, solito stanzone polveroso pieno di fili e carcassoni, divertente, irresistibile icona di un epoca che non esiste più.
I ragazzi purtroppo, vivono nel mondo normale, quello vero, di tutti i giorni che, rispetto alla scuola, sta su un altro pianeta.
Il loro modo di studiare è già legato al concetto di integrazione dinamica di risorse remote, il libro “statico” non risponde oggettivamente alla realtà che li circonda, così come la lezione, come lo stesso layout dell’aula.
I tre mitici hashtag cloud, collaboration e mobile che marcano stabilmente il nostro presente, sono effettivamente il loro presente e, se la realtà storica è qualcosa più di un’opinione, non c’è niente di strano.
I compiti a casa si fanno stravaccati sul divano, col wifi a palla, confrontando le risposte con il gruppo Whats’App di classe, come in qualsiasi coworking. Lavoreranno così domani, perché così già si lavora nelle aziende innovative, dove la scrivania, regno della incontrastato della carta, è tramontata da tempo per lasciare spazio alla flessibilità intrinseca della mobilità, assunta a criterio guida.
Ma la scuola non ce la fa. Arranca nell’impegno primario quanto titanico di contrastare affannosamente la presenza del telefonino, virulento, cattivo e implacabile batterio, aggressore di un organismo tanto nobile quanto debole e sofferente. Combatte questo prepotente rapinatore dell’attenzione dei ragazzi cercando faticosamente, penosamente di puntarla verso le cose che contano davvero, con lo spirito eroico di chi, pur sapendo di essere destinato a soccombere, combatte lo stesso, fino alla fine, la battaglia decisiva dall’ultima trincea.
Eppure quel telefonino, nient’altro è che una finestra sul mondo, una possente risorsa che le famiglie finanziano, e pure generosamente, investendo saggiamente in tecnologia in un momento in cui si contano davvero gli spiccioli.
Questa cosa, che i genitori pagano frugandosi le tasche, si chiamerebbe normalmente, se la scuola fosse in grado di accorgersene, BYOD, bring your own device.
Le aziende smart la propongono ed anzi la incentivano con i propri dipendenti per ottimizzare gli investimenti in tecnologia e spendere solo in innovazione pura, senza perdere tempo e denaro in beni destinati a perdere rapidamente il proprio valore.
Poco ci vorrebbe a mettere a sistema, a cogliere l’opportunità di questo colossale investimento collettivo su una transizione epocale che al pari di altre, come ricorda Riccardo Luna in un post su Startupitalia, viene assimilata a qualcosa di molto simile al demonio. E colpisce pure che i tanti insegnanti, come Salvatore Giuliano e Dianora Bardi, che queste cose le hanno capite (e messe in pratica) da un pezzo, vengano tuttora additati come pionieri, robe sconvolgenti, senz’altro da ammirare ma da prendere con le pinze, “Temerari sulle macchine volanti” al pari della Samantha Cristoforetti.
Ho pensato a lungo che mio figlio, che i nostri figli nativi digitali, proprio perché tali, almeno a scuola avrebbero vissuto il loro tempo in maniera sincronica, in un tranquillo parallelismo temporale tra pubblico e privato, senza quel dannato ascensore magico che sposta le lancette dell’orologio avanti e indietro due volte al giorno.
Non è così. Anche a loro, sarà il destino, toccherà vivere in un “periodo di mezzo” e il Paese ci perde pure una grande occasione.