È il sogno più bello della Silicon Valley. L’ultima utopia dei giovani miliardari che ormai controllano il mondo con le loro piattaforme tecnologiche.
Eliminare la povertà per tutti e per sempre, ma senza impedire – è questa la novità – la ricchezza crescente di pochi, dei migliori in un certo senso.
Come? Verrebbe voglia di dire: con un algoritmo o giù di lì perché quello che si cerca, in fondo, è una formula elegante, semplice, efficace e priva di inutile burocrazia. Un clic e i poveri non lo sono più. Ma dicendo così si rischia di banalizzare quello che sta succedendo in questi mesi negli Stati Uniti, il dibattito autentico che si è aperto improvvisamente quando in rete è apparso un semplice post per reclutare un ricercatore sociale con la missione di cambiare il modo in cui viviamo da sempre o quasi.
Obiettivo: studiare per cinque anni l’effetto reale che fa, sulle persone e sulla società, il basic income, il reddito minimo.
Rispondere alla domanda: se diamo a tutti, ma proprio a tutti, un reddito che levi loro dalla condizione di dover lavorare per vivere, dalla paura di morire di fame o di non poter mantenere i propri cari, che succede davvero?
“Passeranno il tempo a fare videogiochi o lo impiegheranno per creare qualcosa di nuovo? Saranno felici o frustrati? E per la società nel suo complesso sarà un vantaggio o un peso?”.
Where the wind of freedom blows
Le domande sono di Sam Altman. Ha appena 29 anni ed è il perfetto prototipo del nerd di successo della Silicon Valley: è un programmatore, uno startupper e un investitore; non ha finito gli studi a Stanford ma in compenso ha venduto la sua azienda, Loopt (qualcosa di più dell’ennesimo social network), per 43 milioni di dollari e spicci; e da un anno esatto siede alla testa della più venerata “fabbrica di startup” del mondo, l’acceleratore Y Combinator.
Sede a Mountain View, a un passo da Google, fondata nel 2005 dal filosofo Paul Graham, e da allora transito ambitissimo per oltre 600 startup di successo come AirBnb e Dropbox: Y Combinator è un posto dove ti insegnano a diventare ricco con la tua idea e a farlo in fretta. Perché allora questa improvvisa passione per il reddito minimo?
Perché occuparsi dei poveri se la tua ossessione sono i nuovi ricchi? Diciamo subito che in questa mossa c’è molto di più della beneficienza che le grandi multinazionali fanno da sempre per restituire le briciole dei loro guadagni.
C’è la sensazione, fortissima, che il modello sociale attuale non regga più. Sono troppo ricchi i pochissimi ricchi.
Un’idea confermata dal rapporto presentato a gennaio da Oxfam sui 62 super miliardari che hanno gli stessi soldi della meta degli abitanti del pianeta.
E sono sempre di più quelli destinati a diventare poveri, perché la tecnologia sta levando loro il vecchio lavoro. Sempre più professioni oggi sono diventate un software, un app o un robot.
Secondo una indagine presentata a gennaio all’ultimo World Economic Forum, nel villaggio svizzero di Davos, nei prossimi 5 anni, a causa della robotizzazione e della digitalizzazione di molti mestieri, oltre 7 milioni di posti di lavoro andranno perduti e solo 2 milioni di nuovi lavori si aggiungeranno.
Vuol dire che da qui al 2020 ogni giorno quasi tremila persone resteranno disoccupate. Sarebbe una tragedia sociale su cui non tutti sono d’accordo, anzi: molti sostengono che anche questa volta, come accaduto con le precedenti rivoluzioni industriali, alla fine il saldo dei posti di lavoro sarà positivo. Ma il dibattito è aperto e tutt’altro che scontato.
La distruzione creatrice e i nuovi modelli economici
Qualche mese fa, in uno dei templi del pensiero positivo della Valley, la Singularity University, il fondatore Peter Diamandis è stato pubblicamente sfidato da un giovane ricercatore italiano, Federico Pistono, con la domanda: “Mi dica quali lavori non possono fare i robot e io le dirò fra quanti anni potranno farlo”. Al termine della discussione, Diamandis, che pure è una sorta di guru, si è detto “strabiliato”.
Visto in questa prospettiva, il reddito minimo “è una sorta di assicurazione sulla vita al tempo dei robot” come ha scritto Dylan Matthews su Vox.
Ed è naturale che l’idea prenda corpo proprio là dove il nuovo capitalismo digitale è nato e cresciuto in una comunità che non ha mai perso le proprie origini libertarie e utopistiche. “La Silicon Valley è il laboratorio di un nuovo socialismo” scriveva già nel 2009 il tecnologo Kevin Kelly in una storia di copertina del magazine Wired dove metteva assieme il variegato mondo dell’open-source (dove in tanti sviluppano volontariamente progetti digitali senza esserne proprietari, per il bene comune); buone pratiche di collaborazione di massa come Wikipedia; e i primi vagiti dell’economia della condivisione che poi avrebbe visto esplodere AirBnb e Uber.
Basic income: le pratiche in corso e gli esperimenti in arrivo
Sono passati sette anni, alcuni nel frattempo sono diventati stra-ricchi, e il reddito minimo per tutti gli altri ora diventa la nuova frontiera da conquistare. O almeno da studiare. Fare una prova, seria, e vedere come va. Un esperimento è in corso nella città olandese di Utrecht, un altro sta partendo in Finlandia, mentre l’organizzazione non governativa GiveDirectly sta considerando di testarlo in Kenya e Uganda con mille dollari a l’anno per ciascuno.
Ma il caso della Silicon Valley è diverso. L’approccio di Y Combinator non punta solo ad aiutare i più poveri, quanto è concentrato sul misurare la possibilità di creare in questo modo una società più creativa e quindi più felice (e dove i ricchi possono esserlo in santa pace, con meno proteste e reati per esempio).
Spiega ancora Sam Altman: “Fra 50 anni io penso che ci apparirà ridicolo aver usato la paura di morire di fame come la vera molla per motivare le persone a fare qualcosa. E penso anche che è impossibile dare a tutti le stesse opportunità senza una qualche forma di reddito garantito. E penso infine che, se combiniamo tutto ciò con l’innovazione che abbassa i costi per farci vivere meglio, possiamo davvero fare un progresso reale verso l’eliminazione della povertà”.
RICCARDO LUNA