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Renzi, Letta e il governo-startup: io tifo per l’Italia viva

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“Il mio governo è come una startup”. Era il primo giugno scorso. E Enrico Letta era a Trento. Ospite del Festival dell’Economia, si era fermato a far visita agli startupper di Trento Rise. “Anche noi siamo una startup, sballottata, ma con grande determinazione” disse quel giorno prima di farsi fotografare in mezzo ai ragazzi con la maglietta rossa da nerd. Era in carica da qualche settimana ed era un premier felice.

Senza voler entrare nel merito della analisi politica, oggi possiamo dire che gli “sballottamenti” hanno vinto sulle determinazione. Epperò viene da aggiungere che se dobbiamo prendere per buona la metafora del governo-startup, il fallimento una impresa innovativa non è un improbabile esito, ma è esattamente il contrario: nove startup su dieci falliscono e le cause sono le più diverse.

Scarsa esperienza o incapacità dei fondatori, mancanza di capitali, lentezza nell’esecuzione dell’idea innovativa; ma ci sta anche che l’idea di fondo sia sbagliata.

Nel caso del governostartup cosa non ha funzionato? Potremmo parlarne a lungo e non credo che saremmo tutti d’accordo. Ma il fallimento ci sta tutto. Solo che in questo caso fallisce un paese intero e allora è doveroso capire meglio, perché se ripetiamo gli errori stavolta rischiamo di non avere altre chanche. Game over.

Ecco, nel caso di Enrico Letta tutti sono concordi nel dire che oggi uscendo di scena paga una eccessiva lentezza, colpa grave per uno startupper; ma io ho l’impressione che nonostante la giovane età dei suoi ministri al governo uscente sia mancata soprattutto una visione forte del futuro del paese, la percezione dell’innovazione e del digitale quali unici strumenti per uscire dalla crisi.

Conosco piuttosto bene Enrico Letta: ne conosco, credo, il valore come persona e come politico, soprattutto sul piano europeo; e credo che lui stesso guardandosi indietro non potrà non rimpiangere le tante occasioni in cui avrebbe potuto “pensare in grande” e agire di conseguenza. Infatti i momenti in cui una “visione del futuro” si è avvertita, per esempio nel tentare di porre la scuola e formazione al centro di tutto, sono annegati in una serie imbarazzante di provvedimenti timidi e pasticciati (proprio sulla scuola si pensi alla questione dei soldi promessi, tolti e restituiti agli insegnanti ma levandoli al fondo per gli studenti).

Prima di entrare nel merito va detto anche Matteo Renzi aveva usato la metafora delle startup per descrivere la propria azione politica e anche a lui non aveva portato fortuna.

Era nel pieno della sfida con Pierluigi Bersani, le primarie dell’autunno 2012. E nei comizi andava dicendo sempre questa frase: “Voglio che l’Italia diventi la più bella startup del mondo”. Perse. E quella metafora è stata rottamata e non più usata nella successiva campagna per la segreteria PD, stavolta vincente. Cambiare verso è diventato il nuovo mantra, ma forse l’idea che l’Italia possa essere un paese per startupper e più in generale un posto dove vengono premiati gli ingredienti di una startup di successo – ovvero il talento, il merito, l’innovazione e la capacità di fare squadra con gli altri attori del sistema – ecco forse quello no. Questa idea non deve essere rottamata. Non è uno slogan usa e getta. E’ la via maestra per uscire dalla crisi in cui stiamo. Dal pantano, direbbe il quasi prossimo premier.

Su questo terreno qual è il bilancio del governo Letta? Tra le cose buone c’è l’approvazione di alcuni decreti attuativi della legge per le startup varata dal governo Monti. Il decreto Crescita. Sapete che un decreto spesso senza decreti attuativi è aria fritta. Bene, è toccato al governo Letta “attuare” molte delle cose previste e tra tutte le norme ricordo i forti incentivi fiscali per chi investe in startup. Una cosa facile: non come quella varata da New York, dove per 10 anni una startup non paga tasse. Ma comunque una cosa comprensibile e realizzabile. Tu investi in una società innovativa e paghi meno tasse. Fatto.

Non ho capito perché dal via libera della Unione Europea alla firma finale del ministro Saccomanni siano passati quasi due mesi con il testo già scritto, ma quelle norme ora ci sono e sono importanti. Come è importante il visto per gli stranieri che vogliano aprire una startup in Italia (anche se, considerato il clima politico, occorrerebbe dar loro una medaglia al valore o ricordare cosa diceva il sommo poeta, “lasciate ogni speranza o voi che entrate…”): la norma fa parte di Destinazione Italia, un pacchetto invero mostruoso, uscito dal ministero degli Esteri in un modo e arrivato al traguardo del voto finale del Senato (quando? A questo punto non si sa) appesantito da norme che nulla c’entrano con l’idea di rendere l’Italia la destinazione di investimenti stranieri. Ma lo “startup visa” c’è. Ha resistito alle lobby parlamentari. Bene.

In questi dieci mesi di governo Letta è poi entrato in vigore anche il regolamento della Consob sul cosiddetto equity crowdfunding e le prime piattaforme sono operative. Siamo i primi del mondo. A detta di molti il regolamento è troppo farragginoso per far diventare questa strada una vera via di finanziamento “social” delle startup, ma essere partiti è bel un segnale.

Sul fronte della Agenda Digitale invece il bilancio è totalmente negativo. Incomprensibilmente negativo. Nonostante convegni, promesse e belle parole, l’impatto del suo uomo, Francesco Caio, sulla digitalizzazione del paese è stato impercettibile. Un classico caso di “impatto zero”. Perché un manager del calibro di Caio abbia giocato una partita così modesta e silente resta un mistero. A questo vuoto pneumatico del nostro “Digital Champion” aggiungo alcuni episodi emblematici della cultura della innovazione dell’esecutivo: l’epica battaglia del sottosegretario all’Economia in difesa del fax;la decisione del ministro dell’Istruzione di rinviare l’adozione obbligatoria dei libri digitali; e la scelta del ministro della Cultura, d’intesa col Parlamento, di penalizzare fiscalmente gli ebook rispetto ai libri di carta.

Ma questo è stato anche il governo della webtax: il provvedimento è in realtà stato promosso dal presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia, un giovane economista che i giornalisti politici definiscono “lettiano di rito renziano”. Non capisco abbastanza il politichese per decifrare la definizione, ma della vicenda posso dire che, per quanto le premesse avessero ed hanno un sacrosanto fondamento, la prima formulazione della norma era una follia tecnica; come è noto in extremis intervenne proprio il neo eletto segretario PD Matteo Renzi ma la versione finale, ridotta e corretta, avrebbe comunque creato più problemi di quanti non volesse risolverne. E così la cosa era finita all’italiana. Con il governo che dava parere favorevole al congelamento della norma fino al 1 luglio 2014 e il Parlamento che approvava felice la moratoria di sé stesso. Un pasticcio, insomma.

Per certi versi, fare peggio di così sarà difficile ma i politici di questo paese ci hanno abituato a tutto. Ora tocca a Matteo Renzi. Se conosco piuttosto bene Enrico Letta, con Renzi ho addirittura avuto occasione di realizzare progetti di innovazione concreta: il comune di Firenze infatti fu il primo a collaborare con Wikitalia, sviluppando un portale open data, e mettendo in rete non solo il bilancio ma anche le fatture quietanzate in tempo reale. Vera trasparenza, ante-Grillo. In quei frangenti sono stato invitato alla Leopolda del 2011 per parlare di banda larga e dopo di allora ho avuto occasione di seguire da vicino la “fascinazione” del sindaco di Firenze per le startup. Infine qualche settimana fa ho apprezzato che nel testo di lancio del Jobs Act (molto molto acerbo, va detto: aspettiamo quello finale), ci fosse un riferimento esplicito ed importante al ruolo dei makers per il rilancio del made in Italy.

Tutto bene, allora? No. Il governo del paese è una cosa complessa, non basta un sms mandato al momento giusto per trovare la soluzione. Certi dossier vanno studiati. Serve una squadra non basta un centravanti di peso. E i tranelli della burocrazia ministeriale saranno tanti. Ma a questo punto come paese ci giochiamo tutto. E per quanto la staffetta di queste ore sia sembrata a quasi tutti piuttosto una prepotenza tra due bambini che volevano tenersi il pallone, non faccio il tifo contro il bambino che ha vinto per punirlo della prepotenza. Faccio il tifo per il mio paese, perché ce la faccia davvero. Temo che siamo ad un bivio. Adesso o mai più. Io scelgo adesso.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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