Il 31 ottobre, con la nomina di Agostino Ragosa a direttore generale dell’Agenzia per l’Italia digitale, è sostanzialmente terminata la lunga gestazione dell’Agenda Digitale italiana e, in attesa che il decreto Sviluppo 2 venga convertito in legge, ha una missione ancora incerta anche se non più indefinita.
Figlia di un’affollata cabina di regia e di un parziale consolidamento delle competenze della PA in materia di ICT, verrà alla luce dopo essere stata molto desiderata, con una storia molto travagliata alle spalle e un parto fuori dal normale.
Se la guardiamo con gli occhi di Google Trends, uno storico fedele degli interessi della gente comune, la sua storia inizia in un modo piuttosto atipico e in un momento preciso: il 31 gennaio 2011.
Un centinaio tra manager, imprenditori, docenti, giornalisti, artisti e professionisti della Rete compra – ognuno a titolo personale – una pagina sul Corriere della Sera e lancia un appello alle istituzioni e alle forze politiche per dare una strategia per la digitalizzazione dell’Italia, una delle poche nazioni al mondo a non averne una nel XXI secolo.
L’appello non è per chiedere più o meno “velatamente” un provvedimento di favore per un settore sfortunato e trascurato, bensì per porsi il problema e fare qualcosa, qualsiasi cosa, per cominciare a digitalizzare il Paese.
Nella vita paga più essere scettici che fiduciosi perché a dubitare si può anche sbagliare ma ci si salva più spesso di quanto non ci si trovi a pentirsene. Pertanto, avendo fatto parte di quell’avventura fin dall’inizio, allora come adesso, capisco chi guarda questo tema e quella campagna con diffidenza e anche adesso che abbiamo avuto l’Agenda Digitale, ci si chiede se ne abbiamo davvero bisogno o se, con la crisi che morde sempre di più, non sia soltanto tempo sprecato.
Partendo dal presupposto che, come diceva Disraeli, esistono tre generi di bugie: le bugie, le maledette bugie e le statistiche, rispondere con le statistiche a dubbi come questi non vale. Se poi dall’altra parte ci sono anche dei politici, colleghi del cinico ma saggio Disraeli, la cosa dovrebbe essere addirittura sconsigliabile.
Winston Churchill – un altro politico – era profondamente convinto che le sole statistiche di cui ci si possa fidare sono quelle che noi stessi abbiamo falsificato, quasi fosse un epigono o un seguace di un altro politico di lungo corso, George Canning, autore di un teorema ancora più radicale:«Posso dimostrare di tutto con le statistiche, fuorché la verità».
Se, paradossalmente, le convinzioni di tre politici fanno una statistica credibile che sconsiglia l’uso di statistiche in politica, quel che rimane sono i fatti della storia, che anche per i politici sono il vero riferimento.
E la storia racconta che le rivoluzioni tecnologiche sono il motore della storia.
L’invenzione della staffa, ad esempio, ha cambiato il modo di cavalcare, il modo di combattere, la struttura degli eserciti e poi i destini di interi popoli. Lo stesso vale per la polvere da sparo ma anche per il motore a scoppio e l’aereonautica, il radar e il nucleare.
Quindi, è la tecnologia la spiegazione della storia? Basta averne tanta per cambiare la storia? È così semplice?
No. La storia la cambia chi mette a profitto la tecnologia e cambia per trarne vantaggio, non chi crea la tecnologia. La staffa fu inventata in India intorno al II secolo d.C. ma cambiò la storia del Medioevo così come la polvere nera, inventata dai cinesi centinaia di anni prima, cambiò le sorti militari in Europa a partire dal XV secolo.
La tecnologia si è sempre affermata nello stesso modo: non uniformemente. Le cause sono state di volta in volta politiche, militari, culturali, sociali, finanziarie, religiose o una combinazione di queste ma – sempre – ha avvantaggiato alcuni più di altri, ridistribuendo potere, ricchezza e prosperità.
Come racconta Carlota Perez nel suo libro “Technological Revolutions and Financial Capital: The Dynamics of Bubbles and Golden Ages”, l’ICT è un altro episodio di questa storia ricorrente. Dopo la rivoluzione industriale è arrivata quella dei motori a vapore e della ferrovia. Poi è stato il turno di acciaio, elettricità e industria pesante seguita dall’era del petrolio, dell’automobile e della produzione di massa.
Adesso siamo nel mezzo della rivoluzione dell’ICT ma ci sono ancora molti che ancora guardano alla grande industria meccanica come punto di riferimento e che sono convinti che industria, autostrade e produzione (e/o comunicazione) di massa siano gli unici posti dove guardare per trovare soluzioni a qualsiasi problema come la crescita, la disoccupazione, il controllo sociale. Non è del tutto vero il contrario ma non è più neanche vero questo punto di vista.
Tra coloro che più guardnoa con maggiore nostalgia al passato ci sono soprattutto politici, sindacalisti, industriali, banchieri, uomini di cultura ma anche tanta gente comune.
È strano? Non dovrebbe succedere? Altrove non è successo? No. È normale. Accade sempre così, ovunque. Ogni rivoluzione del passato si è affermata sempre nello stesso modo, con una larga maggioranza che lotta e guarda al paradigma precedente (la terra, l’acciaio, il petrolio, etc.) che già comincia a morire perché quello successivo sta nascendo. E quello nuovo non arriva come il lieto fine di una grande storia di successo ma con picchi di euforia, alimentate dalle attese di una grande novità, e grandi crisi per lo sgonfiarsi delle aspettative eccessive o premature. Per chi ha buona memoria, è facile ricordare che prima della bolla della new economy c’era già stata la bolla delle ferrovie, del telegrafo, dei telefoni, dell’automobile e così via.
Se è vero che accade sempre così, ovunque e per tutti, non è però vero che le conseguenze siano uguali in ogni caso. Le differenze tra chi si avvantaggerà di una rivoluzione tecnologica e chi no le crea la capacità di riconoscere per tempo che un cambiamento è ineluttabile, prenderne atto e farlo fino alle estreme conseguenze nel modo più ampio possibile, vincendo le resistenze nei vari strati del mondo dell’economia, della finanza, della politica come delle parti sociali e tra la gente comune. Allora le cose cominciano davvero a cambiare.
Torniamo all’ICT e all’Agenda Digitale.
L’ICT non è un settore da aiutare. È uno strumento da utilizzare per cambiare la società e il nostro Paese. Se, ad esempio, serve dare trasparenza alla gestione politica, oggi la migliore risposta non è fare nuove leggi, perché non hanno funzionato in passato e non è mai chiaro perché debbano essere rispettate e funzionare in futuro.
Al contrario, la migliore soluzione è cambiare radicalmente i meccanismi su cui si basano le vecchie leggi per rendere trasparente quel che fa la politica, eliminando alla base le tentazioni prima che queste diventino “peccati”.
Il modo più facile per farlo è ripensarne alla base i meccanismi di funzionamento utilizzando l’ICT come strumento, ad esempio, rendendo i singoli atti amministrativi automaticamente pubblici, le singole spese della PA direttamente consultabili, le singole decisioni sempre riconducibili ai singoli decisori, le singole contabilità consolidate in tempo reale e così via.
Con l’ICT si potrà avere anche più crescita, ma solo se ci sarà una resistenza al cambiamento meno diffusa perché si apriranno nuovi spazi imprenditoriali.
Allo stesso modo, ci sarà più efficienza e produttività, ma a condizione che ci sia meno paura di ripensare radicalmente parti ampie del nostro sistema economico perché gli effetti di scala si possono ottenere anche tra le PMI se si coinvolgono filiere sufficientemente ampie.
In poche parole, potremmo avere davanti un nuovo rinascimento digitale.
Il Graal dell’ICT e di un’Agenda Digitale è nel cambiare la prospettiva e anche l’orizzonte. Purtroppo, però, farlo oggi, in Italia, con il ritardo accumulato e le resistenze in atto non è un compito da “tecnici”.
Ogni paese ha una storia e caratteristiche uniche, ma anche vincoli e opportunità altrettanto unici. Quindi, allo stesso modo, le soluzioni che possono funzionare sono uniche. Se si vuole ripensare profondamente il nostro sistema economico, politico e amministrativo in modo da prendere profitto dell’ICT, fare un salto epocale e darsi un futuro nel XXI secolo – che è il vero obiettivo dell’Agenda Digitale europea – allora non c’è nessuno al mondo che sia già così avanti da potere essere un riferimento sicuro e i numeri dietro gli obiettivi che l’Europa pone a se stessa non devono trarre in inganno: possono essere solo il risultato di un processo di cambiamento, non l’obiettivo, sono il dito ma non la luna.
Molti hanno già intuito il rischio potenziale che la diffusione dell’ICT può portare al loro comodo status quo e fanno facile resistenza passiva. Sono i peggiori e avranno vita facile se si pensa che l’Agenda Digitale sia semplicemente un’altra voce dell’agenda politica da delegare a persone competenti e capaci di applicare diligentemente best practice copiate da qualche altra parte nel mondo. Per questa via sarà tutto inutile.
Se il mondo della politica e la classe dirigente del nostro Paese non diventano consapevoli del fatto che si ha di fronte un’opportunità epocale per cambiare radicalmente con strumenti nuovi i meccanismi perversi che ci impediscono di esprimere appieno le nostre potenzialità, non basteranno dieci, cento, mille Agende Digitali per cambiare qualche cosa. E l’occasione sarà inevitabilmente persa.
Che si faccia una cattedrale o una chiesetta, se non ci si cura del progetto e si delega la sua realizzazione, non si avrà mai quel che si desiderava. La sensazione però è che in materia di digitalizzazione oggi la classe dirigente italiana, e quella politica in particolare, non sappia neanche quel che desidera. E anche senza utilizzare la statistica è facile prevedere quel che succederà.