Ho pensato a un altro titolo per questo articolo: “Import-export di parti umane”. No, non è quello che pensate. Non ha niente a che fare con i tristissimi mercimoni di “donazioni” e trapianti, che pure conosciamo, purtroppo. È comunque una storia abbastanza triste, emblematica, tutta italiana, eppure contiene una speranza per il futuro.
Quanti sono gli immigrati arrivati in Italia, in modo più o meno legale, diciamo negli ultimi 25-30 anni? Di preciso non lo sa nessuno, naturalmente, ma certo sono molti milioni. Forse la stima migliore la forniscono le statistiche sulla natalità: il nostro Paese sembra aver ricominciato a crescere, almeno in numero, ed a sperare in un futuro migliore grazie alla demografia degli immigrati. Niente di nuovo per un paese industrializzato: USA, Francia, Inghilterra e Germania da almeno un paio di generazioni sono più o meno felicemente diventate democrazie multietniche.
Hanno tutte, senza eccezione, guadagnato in natalità, produttività e cultura, accettando di pagare un inevitabile prezzo in difficoltà, talvolta gravi, di integrazione.
Tranne l’Italia, naturalmente. Nel Belpaese, dominato fino a poco fa dal basso populismo di Bossi e Berlusconi e dalla “filosofia” (che parolona…) del “padroni a casa nostra” (compresa la volgarità dei maiali portati a spasso da parlamentari della Repubblica su spazi destinati a moschee…). Gli immigrati servono a raccogliere i pomodori come schiavi, a piastrellare i pavimenti o a badare a vecchi e infermi. Insomma a fare tutti lavori manuali o poco o niente qualificati che gli italiani, crisi o non crisi, violentemente non vogliono più fare. Punto. Meglio fare i disoccupati.
La Francia invece, per esempio, ha come obbiettivo a breve-medio termine il 20% di stranieri (cioè non cittadini francesi) tra i ricercatori del CNRS, il CNR francese e il più grande Ente di ricerca europeo.
Nella maggior parte si tratta di immigrati relativamente recenti, molti da ex-colonie in Nordafrica o Sud-Est asiatico. Già oggi, comunque, al CNRS ci sono numerosi direttori di istituto non francesi (chi scrive ne è stato un esempio).
Da poco, ahimè, a questa “emigrazione intellettuale” verso la Francia si è aggiunto un corposo contingente italiano: nella fisica, per citare un caso, negli ultimi concorsi di ingresso al CNRS, gli italiani vincitori di un posto di ruolo arrivavano al 40%, a riprova che i nostri giovani fisici sono bravi, bravissimi. Ma per ognuno di quelli che se ne va, noi in Italia abbiamo buttato via un po’ della possibilità di continuare la nostra splendida tradizione culturale in fisica e di migliorare l’innovazione tecnologica.
In più, il contribuente italiano avrà buttato via le molte centinaia di migliaia di euro necessarie per portare un cittadino dalla scuola materna al dottorato.
Eccolo l’import-export di parti umane: in Italia si importano braccia e si esportano cervelli. Per fortuna, le prime sono ancora più numerose dei secondi, ma la “somma algebrica” tra braccia e cervelli continua a peggiorare a sfavore dei cervelli, e comunque il danno è già grosso. Né riusciamo, almeno finora, a rendere le nostre Università abbastanza attraenti (tranne rimarchevoli eccezioni) da attirare da noi un numero sufficiente di teste esterne, soprattutto di gente di punta.
Oggi, per venire a studiare in Italia, bisogna solo essere abbastanza ricchi, non è obbligatorio essere intellettualmente di punta.
Avanziamo, sommessamente, una proposta, un po’ futuribile e un po’ provocatoria, consci che farà gridare allo scandalo. Sappiamo quasi di sicuro che in un barcone, uno dei tanti, arrivati precariamente a Lampedusa o in Puglia c’era un giovane nordafricano (o una ragazza nigeriana), entrambi, potenzialmente, geni della matematica, o della linguistica, o della musica. Ce lo dice la legge dei grandi numeri: su milioni di immigrati qualche genio ci deve essere di sicuro, anche se non ha ricevuto alcuna educazione ed è a stento riuscito ad arrivare vivo, e privo di tutto, da noi.
Ecco l’occasione per il futuro: trasformiamo le braccia in teste, almeno qualcuna. Proponiamo che in alcuni dei centri di accoglienza più importanti venga data la possibilità, rigorosamente su base volontaria, di fare un test di intelligenza, cioè di misurare il proprio Quoziente di Intelligenza, il famoso IQ degli americani.
Tutti sanno che esistono tabelle assolute in grado di misurare, quantitativamente ed obiettivamente, quella cosa un po’ elusiva, ma in fondo chiara a ciascuno di noi, che chiamiamo “intelligenza”. Sento già le urla: “ma cos’è l’intelligenza? Ce ne sono di tanti tipi! Non si può misurare!“. Tutte balle. Provare per credere: la media mondiale, fatta su numeri grandissimi, è un Q.I. di 100, e se uno ha 150 si vede subito, garantito. Di qualunque colore, religione, nazionalità uno o una siano, naturalmente.
Certo, bisogna tener conto della lingua e della scolarizzazione (o assenza di essa), ma anche qui ci si può attrezzare. Ci sono precedenti interessanti, a partire da esperimenti su grandi numeri fatti sulle reclute negli USA. Se difficoltà di lingua (dal farsi al kykuyu) fossero troppo grandi, che bella sfida sarebbe per i nostri psicologi da campo sviluppare un QI-test che sia indipendente dal linguaggio (magari esiste già…). In ogni caso, si potrebbe, da subito, partire a studiare il problema di come misurare in modo credibile il QI di centinaia (per cominciare) di persone diverse in tutto, e valutare il costo dell’operazione.
Fondamentale mettere in chiaro che uno fa il test se vuole, e del risultato (segreto) fa quello che vuole. Ma se, per esempio, il risultato fosse interessante, e la persona in questione scegliesse di farlo vedere ad una apposita commissione, da lì potrebbe partire un percorso diverso dai campi di pomodori e molto più interessante per la persona (e per l’Italia). Un percorso a corsia preferenziale di qualche anno per la lingua e la scolarizzazione di base, se necessario, e poi via, in una prestigiosa Università italiana. Per quanto riguarda gli argomenti di studio, tutto fa brodo: dall’ingegneria alla linguistica, dalla matematica alla biologia, l’Italia ha bisogno di eccellenze in tutto.
Immagino già la Scuola Normale di Pisa battersi con lo IUSS di Pavia per il privilegio di ospitare i migliori, naturalmente con supporto governativo per una giusta borsa di studio e l’incentivo di una fast-track verso una cittadinanza italiana. Nello studiare il futuro progetto “More Brains for Italy” si potrebbe anche calcolare il “rendimento” del progetto stesso, anche se non è certo facile valutare l’impatto economico di una nuova generazione di ricercatori.
Ma sospettiamo che anche solo poche decine all’anno di persone inserite ad alto livello nella ricerca, per esempio nelle scienze dure, farebbero una differenza già all’interno del primo decennio dell’operazione. Andremmo ad aspettarli sulle spiagge i prossimi barconi e, in incognito, forse ci sarebbe qualche Rettore.
Milano, 11 luglio 2012GIOVANNI BIGNAMI