Quando la crisi finanziaria colpì la Sardegna, un gruppo di amici decisero che il sistema migliore per aiutare la loro terra fosse quello di creare una moneta da zero.In Sardegna sono presenti circa 7.000 torri antiche realizzate con grandi blocchi di pietre. Conosciuti come nuraghi, sembrano degli enormi alveari che si sporgono sulle alture isolane. Si sa ancora poco circa la loro storia, ma quasi ogni sardo ha una sua teoria a riguardo. Alcuni mi hanno detto che sono dei fortini, altri abitazioni, luoghi di scambi e addirittura dei trasmettitori. «La cosa sensazionale è che da ogni nuraghe vedi un altro nuraghe», mi ha detto Carlo Mancosu, 34enne sardo. «Immagina adesso un sistema di comunicazione fatto di luci e fuochi.
Io penso che all’epoca esistesse un popolo in rete. I nuraghi erano una rete».
I fondatori di Sardex (da sinistra): Gabriele Littera, Piero Sanna, Carlo Mancuso, Giuseppe Littera and Franco Contu. Foto: Alessandro Toscano
È questo sistema, reale o immaginario, ad aver ispirato i fondatori della prima moneta locale in Sardegna, il Sardex. Laureati in marketing e materie umanistiche, con alcune esperienze nel settore finanziario, hanno pensato questa moneta una volta tornati a Serramanna, loro paese natale, dove si trova tuttora la sede di Sardex. Erano i prodromi della crisi finanziaria e la loro speranza era che quel progetto di moneta complementare li permettesse di trovare un lavoro nel posto in cui erano cresciuti. Sei anni dopo il sardex è diventato un simbolo dell’azione locale, stimolando la nascita di nuove reti di business.
Solo quest’anno il circuito ha permesso lo scambio di beni e servizi per un valore di 31,3 milioni di euro.
Serramanna è un paesino agricolo del Medio Campidano, una delle regioni più povere in Italia. Quando l’ho visitata, la piazza principale era piena di signori anziani che bevevano caffè all’ombra delle palme. Il silenzio veniva rotto qualche volta dai rumori dei motori degli aerei della Nato che attraversano il cielo. Ho incontrato quattro dei cinque fondatori di Sardex in una bella casa campidanese. Su una delle pareti c’è la scritta Proibiu murrungiai (“Vietato lamentarsi”). «L’ha detta mia nonna” – racconta Gabriele Littera, presidente di Sardex – ma lei continua a lamentarsi della base Nato perché le hanno tolto i 10 migliori ulivi del campo di famiglia».
I fondatori hanno trascorso la loro infanzia a Serramanna. «Ho tracciato l’albero genealogico della mia famiglia e ho scoperto che non ci sono documenti precedenti a 500 anni fa», dice Giuseppe Littera, un altro dei fondatori. Sono un gruppo eterogeneo che dibatte intensamente sulla politica locale e la crisi finanziaria. Giuseppe parla rapidamente, Gabriele si mostra più riservato e dosa le parole. Carlo è quello più sicuro di sé e Piero Sanna, il trader pragmatico, è l’unico che ha avuto delle esperienze precedenti nel mondo della finanza.
La loro vita in paese sembra idilliaca, ma i ragazzi ci raccontano uno spaccato differente. «La tassa di disoccupazione giovanile è al 50% – dice Giuseppe – le fattorie sono in crisi e chi ha un minimo di capacità linguistiche vola via, a Londra o Berlino». Nel 1960, il governo da Roma decise che il futuro della Sardegna – isola di minatori, pastori e contadini – dovesse basarsi sullo sviluppo industriale. Siti petrolchimici e raffinerie vennero così costruite come parte del cosiddetto piano di Rinascita, guidato dallo Stato.
Quando chiedo ai fondatori quale sia il problema del paese, loro mi rispondono con sarcasmo. «L’hanno chiamato piano di rinascita ma hanno portato l’inferno in un paradiso”, risponde Carlo. L’industria petrolchimica, dopo la crisi del 1973, si rivelò incapace a competere nei mercati internazionali. «Non abbiamo fatto altro che contrastare emergenze in queste industrie. Abbiamo un’eredità pesantissima», è il commento di Stefano Usai, economista al Crenos.
Nel 2008, poi, fu la volta della crisi finanziaria. «Qui, a duemila km dalla Lehman Brothers, le banche smisero di concedere prestiti” – mi dice Giuseppe – e alla gente non vennero più concessi dei crediti. Senza liquidità, le imprese hanno iniziato a chiudere i battenti e a licenziare i lavoratori. A Serramanna abbiamo ancora problemi di suicidi». Analizzando la crisi finanziaria, i fondatori vi trovarono una contraddizione: le cause erano distanti, ma gli effetti incidevano a livello locale. Cosa ha a che fare il sistema economico della Sardegna con le disfunzioni di Wall Street o di Londra? Si chiesero. Le imprese locali avevano ancora la capacità di produrre beni e servizi, i magazzini non erano vuoti e le persone erano capaci di lavorare. Se questa fosse stata una crisi finanziaria, sarebbe stata risolta con una soluzione finanziaria. «Non c’era altra soluzione che permettere alle imprese di creare una propria moneta».
Per almeno 150 anni, operatori finanziari, utopisti, riformatori ed eccentrici hanno tentato di introdurre delle monete locali, spesso in risposta a periodi di scarsità di moneta.
C’è chi ha creato sistemi di credito, banche del tempo o banconote, spingendosi fino all’assurdo. Molte invenzioni hanno avuto vita breve, altre hanno prodotto le condizioni per il successo di altre.
Tra i sistemi più riusciti c’è il WIR, comparso dopo la Grande Depressione. Nel 1934, una rete di imprese svizzere decise di creare un sistema di credito reciproco senza utilizzare il franco svizzero. Specialmente in periodi di crisi economiche, il WIR si è dimostrato un sistema eccezionalmente resiliente. Nonostante abbia subito grandi modifiche duranti gli anni, continua a esistere forte dei suoi 45mila membri.
«Per scopi differenti” – ha scritto l’economista britannico EF Schumacher – gli uomini necessitano di strutture differenti, grandi o piccole, chiuse o inclusive». Per alcuni, le monete locali sono la risposta finanziaria a questo bisogno che ha dimostrato di avere parecchi precedenti durante il corso della storia. «La caratteristica permanente del sistema monetario da Carlo Magno fino a Napoleone è la distinzione tra monete diverse per propositi differenti”, ha detto Luca Fantacci, storico ed economista della Bocconi di Milano.
Sardex era solo una piccola e improbabile idea nella testa di Giuseppe quando era studente a Leeds.
Nel 2006 lesse un articolo sul WIR, la moneta complementare svizzera, e iniziò a chiedersi perché non fosse possibile fare lo stesso a Serramanna. «In Inghilterra studiavo e cercavo di trovare un senso alla mia vita. Quando ho scoperto WIR, mi son detto ok, combatterò con tutto me stesso per una giusta causa. L’altra opzione sarebbe stata continuare a essere spettatore dei cambiamenti del mondo». Quando propose quest’idea a Gabriele, a Carlo, a Piero e a Franco Contu, l’altro fondatore, iniziarono insieme a disegnare una moneta elettronica locale il cui nome, Sardex, non lascia dubbi riguardo alle sue origini.
Sembra assurdo. I fondatori non avevano che poche nozioni su finanza ed economia ma hanno creato un moneta per la loro terra. «Noi siamo qua, le imprese sono qui, facciamo tutto ciò senza avere inconvenienti con Roma o Bruxelles», dice Giuseppe. Per creare Sardex, sono partiti da zero, hanno studiato la storia dell’economia, il WIR e la proposta di J. M. Keynes a Bretton Woods di un sistema di compensazione internazionale.
«Non c’è ragione alcuna di pensare che i mercati finanziari siano più avanti delle istituzioni finanziarie del Rinascimento”, è il commento di Massimo Amato, storico ed economista alla Bocconi. «Il senso comune non è mai obsoleto». I fondatori hanno preso un po’ dalla storia e non si sentono in debito con la tradizione. In un paper di Paolo Dini della LSE c’è scritto che «Sardex ha caratteristiche strutturali che lo rende quasi unica tra le centinaia di esempi di monete complementari in giro per il mondo, che sono esistite da sempre nella storia umana in tutte le nazioni del mondo».
Per capire Sardex dobbiamo lasciar perdere molti concetti che pensiamo di conoscere sulla moneta.
Non ci sono banche che stampano Sardex, nemmeno un algoritmo che genera monete digitali.
Sardex è un sistema di credito reciproco: tutti i conti delle imprese iscritte al circuito partono da zero e accrescono la propria unità di conto – un sardex equivale a un euro, ma non è convertibile – non appena scambiano beni e servizi. Le imprese possono avere dei debiti, ma non possono superare un certo limite e ciò dipende da quanto possono offrire alle altre aziende. Non ci sono tassi di interesse, la funzione del sardex è quella di essere semplicemente un mezzo di scambio. «All’interno del circuito i debitori non vedono il loro debito crescere ma piuttosto trovano creditori che vogliono spendere – dice Gabriele – questo dovrebbe essere un processo naturale del mercato».
Quando mi è stato spiegato Sardex per la prima volta, ho pensato che fosse semplice pensarlo come un concentrato delle relazioni umane. «La moneta diventa un’informazione – spiega Carlo – ma sopratutto un sistema di diritti e doveri. Dal momento che io prendo qualcosa dalla comunità, contraggo un debito nei confronti di questa, e quando ripago quel debito, ho semplicemente reso agli altri quanto dagli agli altri ho ricevuto. Ritengo che questa sia una cosa bellissima».
La radice della parola finanza viene dal latino finis, fine. Per Fantacci e Amato, la semplicità di Sardex riflette l’etimologia e il vero fine della finanza, cioè quello di permettere a debitori e creditori di procedere insieme, fare pagamenti e farne in molti modi, concludendo in questo modo la relazione economica. «Sardex è una moneta che serve fino al fine, una volta che si arriva alla fine, il lavoro è concluso».
Il cuore del sistema Sardex sono i gestori. Utilizzando un sistema centralizzato, questi tracciano attentamente ogni transazione, e occasionalmente intervengono nel circuito per assicurarne la stabilità. «Sardex è un sistema volontario, noi non abbiamo né potere né pistole», dice Giuseppe.
L’azienda Sardex è stata registrata nel 2009 e da lì hanno iniziato ad avvicinarsi alle imprese locali. «All’inizio è stato drammatico – riconosce Carlo – ci guardavano come fossimo arrivati dallo spazio. Le imprese volevano gli euro per pagare debiti e fornitori». All’inizio del 2010, invece, la svolta. Un piccolo imprenditore pensò subito che l’idea fosse fantastica, e chiese: in quanti siamo? “Per ora sei solo tu, ma cresceremo”, fu la promessa dei founders.Promessa mantenuta, oltre ogni previsione. Adesso fanno parte del circuito grandi aziende, ristoranti, studi dentistici, professionisti, associazioni. Le aziende trovano nuovi clienti e acquistano beni e servizi a cui non avrebbero mai potuto accedere. Il tutto basata sulla fiducia. «Le relazioni umane sono il motore del circuito“, confida Gabriele – non sarebbe stato mai possibile realizzare un circuito su Internet».
Alla fine del 2010, Sardex registra 237 iscritti e le transazioni arrivano a 300mila euro. Una lotta per la sopravvivenza, dicono di quegli anni i fondatori. Inizialmente le ancore sono state le famiglie, in seguito la tassa di iscrizione richiesta agli iscritti per poter entrare nel circuito. Poi nel 2011, il fondo di investimento dPixel fiuta l’affare, decidendo di investire 150mila euro.
Quindici anni fa, un giurista in pensione, Giacinto Auriti, pensò il Simec da Guardiagrele, un paesino italiano grande quanto Serramanna. Pagò un tipografo del posto per stampargli la moneta che aveva ideato e la distribuì ai suoi compaesani in cambio delle lire. Per Auriti il Simec non era soltanto un’iniziativa locale ma l’inizio di una lunga campagna contro le banche centrali e il loro monopolio sulla moneta. A differenza di Auriti, i fondatori di Sardex hanno sempre visto il sistema sardex complementare al sistema finanziario.
La loro non è una guerra contro la Banca d’Italia. Il ruolo dello Stato non si discute.
Gli iscritti al circuito Sardex.net possono pagare in euro e in sardex, le tasse sulle transazioni in sardex vengono pagate in euro e il valore degli stessi sardex è legato a quello degli euro. «Abbiamo creato un circuito che è politicamente agnostico. Noi parliamo con tutti – riferisce Giuseppe – non ha importanza che tu sia di destra o di sinistra, del nord o del sud».Auriti non vinse la sua personale battaglia contro la Banca d’Italia. Nel 2000 la guardia di finanza chiuse la sua attività. Sardex, nel mentre, continua a crescere. Al giorno d’oggi quasi 3mila aziende utilizzano il sardex, tra cui Tiscali, la compagnia di telecomunicazioni, e L’Unione Sarda, uno dei principali quotidiani dell’isola. Spogliato della funzione di moneta come riserva di valore, il sardex circola molto velocemente: secondo quanto riportano i suoi fondatori, il circuito ha permesso più di 30 milioni di transazioni quest’anno e circa 84 milioni da quando è operativo.
«All’interno del circuito, un credito circola 12 volte in un anno – dice Gabriele – nessuno tiene i propri crediti sardex nel portafogli».
Il team di Sardex ora sta proponendo un piano per far entrare la Regione Sardegna all’interno del circuito. In sardex si potrebbero comprare i biglietti dei bus o le locazioni delle proprietà. Il Vicegovernatore Raffaele Paci è un economista che sembra rappresenti l’esatto opposto dei giovani fondatori. «Se vivessimo in un mondo ideale non avremmo bisogno dei sardex”, ha detto. Tuttavia anche lui riconosce che in un mondo imperfetto come quello in cui viviamo anche questa valuta ha un ruolo da svolgere. «In generale è un’ottima esperienza che ha dato una grande mano d’aiuto».
Sei anni dopo la sua nascita, Sardex continua ad affrontare molte sfide. In un mercato imperfetto, la rete deve essere sostenuta per mantenere una certa stabilità, confidando nel lavoro svolto dai gestori. Sardex è un sistema basato sulla fiducia, dove è permesso alle aziende di andare in rosso, esponendo il circuito al rischio che un iscritto mantenga un saldo negativo. È successo qualche volta, hanno riconosciuto i fondatori, «in questi pochi casi abbiamo proceduto per conto del Circuito al recupero del credito secondo le normali vie legali, anche se come ben sappiamo i tempi della giustizia in Italia sono lenti».
Dopo aver incontrato i fondatori, ho fatto un giro per Serramanna incontrando alcuni iscritti al circuito. Il titolare di un piccolo negozio mi ha fatto vedere il suo sistema di conti online interno e tutti gli altri iscritti con cui potrebbe transare. «Questo sistema crea connessioni e mi permette di lasciare la ricchezza nell’isola», mi ha detto.
Il modello è già stato replicato in altre otto regioni in Italia: Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Lazio, Marche, Abruzzo, Molise-Sannio, Sicilia. L’anno scorso Giuseppe ha partecipato a un convegno in Grecia parlando più di fiducia e relazioni che di modelli economici e sistemi di credito. «Bisogna focalizzarsi sull’impatto che si può avere, lavorare ogni giorno e cercare di creare comunità laddove non esistono. In Sardegna le fabbriche sociali sono state distrutte, allora abbiamo iniziato a tessere…».