Scaricare sullo staff il tweet sbagliato è un boomerang per chi fa politica

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Non mi sono mai piaciuti i tweet e i post firmati “staff”. E non è una questione di “gusto”, di estetica: trovo siano un errore che inceppa la logica di funzionamento dei social network.

Ogni giorno ricevo email da Hillary Clinton e Bernie Sanders che mi aggiornano sui progressi della loro campagna per le primarie. Mi scrivono “Ciao Claudia” e si firmano con nome e cognome. Non sono così ingenua da pensare che le mail siano composte una per una personalizzando il nome del destinatario e siano scritte direttamente da Clinton e Sanders. Però ho bisogno di credere che sia così.

I social network, ancor più delle newsletter, mettono in scena l’azzeramento dei gradi di separazione tra le persone, indipendentemente dalla propria identità.

Dal Papa al presidente degli Stati Uniti fino al mio vicino di casa, su Twitter e su Facebook ho accesso diretto al loro punto di vista sul mondo. E con un click posso interagire e far sapere al Papa. al presidente degli Stati Uniti e al mio vicino di casa cosa penso. Ecco la differenza con i mass media: non solo sui social media siamo tutti produttori di contenuti e non semplici fruitori, ma ciascuno di noi si rivolge, potenzialmente, a chiunque altro al mondo dotato di connessione a internet.

Potenzialmente. In teoria. Nella pratica sappiamo che i social media tendono a replicare alcune dinamiche tipiche di altri mezzi di comunicazione e, più in generale, della società.

I social spesso replicano gli schemi della tv

La potenziale orizzontalità dei social network tende a lasciare spazio a forme di gerarchizzazione, nuove o antiche.

Da un lato abbiamo la produzione di microcelebrità, persone e personaggi che emergono sulle diverse piattaforme e che, su temi specifici, in momenti particolari e più o meno duraturi, tendono a concentrare attenzione, orientare dibattito, essere hub di una community. Dall’altro sui social network si riproducono le stesse dinamiche di concentrazione intorno a persone che godono di visibilità anche al di fuori delle piattaforme digitali. Come è normale che sia, un personaggio pubblico noto e seguito offline avrà un ampio seguito e grande notorietà online. Ed è la ragione per cui è assolutamente normale che un personaggio pubblico si faccia aiutare da una o più persone nella gestione dei propri canali social.

È normale anche per un politico. Anzi, soprattutto per un politico a cui una certa vulgata negli ultimi anni ha imposto di dedicarsi con impegno e abnegazione 24 ore al giorno al suo lavoro di “dipendente” della collettività.

E quindi, quando troverebbe il tempo di aggiornare i propri profili e, soprattutto, leggere i commenti, rispondere, restare aggiornato su quanto viene discusso in Rete?

Eppure è quello che ci aspettiamo da un politico in era digitale: presenza costante online, ascolto della propria comunità, dialogo.

Avere uno staff, una o più persone che si occupano della propria comunicazione online sta diventando la norma per quasi tutti i politici ad ogni livello.

Anche perché, vivaddio, molti si rendono conto che il digitale richiede competenze specifiche che non sono (ancora) alla portata di tutti.

Sappiamo tutti che dietro ai tweet di ministri, segretari di partito, sindaci si nasconde la mano dei loro social media manager. Del resto, la figura del ghostwriter non è una novità dell’epoca digitale e mai si è sentita l’esigenza di esplicitare chi aveva redatto cosa. Perché farlo in un post su un social network, là dove l’esigenza di immediatezza, di disintermediazione è integrata alla natura dello strumento? Perché firmare con quello “staff” tra parentesi, rompendo l’illusione, costruendo un muro, ricacciando chi legge al suo posto di spettatore? Perché farlo se del digitale se ne comprendono le potenzialità e non lo si vive solo come un altro palcoscenico da cui parlare senza essere disturbati?

Matteo Renzi, che ha fatto dello scansare ogni confronto coi corpi intermedi della società una pratica di governo, è il massimo esempio di come funziona la comunicazione disintermediata ai tempi dei social network. Non è un caso che si sia scatenato il panico il giorno in cui si scoprì che – udite udite – altre persone oltre lui hanno la password del suo account Twitter e “ogni tanto” lo usano. «Arrivo, arrivo!, le foto all’alba dalla finestra di Palazzo Chigi ci hanno convinti che, quando leggiamo @matteorenzi, stiamo leggendo il prodotto del dito di Matteo Renzi sullo schermo del suo smartphone, anche se verosimilmente in alcune circostanze non può essere materialmente lui a scrivere. Ma poco importa.

Noi vogliamo credere sia lui, noi dobbiamo credere sia lui. Solo così la comunicazione sui social network è efficace.

Il mantra dell’invisibilità dello staff

Lo staff deve essere invisibile, nella buona e nella cattiva sorte. Deve esserlo quando il tweet è efficace e fa migliaia di retweet, deve esserlo a maggior ragione quando c’è un problema. Che sia il retweet imbarazzante o il tweet con l’errore grammaticale è molto poco elegante scaricare pubblicamente “sullo staff” un errore. O sullo stagista. O gli hacker.

Gli errori capitano. A volte l’errore si è compiuto in fase di selezione dello staff.

Solitamente in presenza di errore è sufficiente ammettere, scusarsi, correggersi e andare oltre. Nessuno si sognerebbe mai di ringraziare pubblicamente il proprio staff per un tweet ben scritto e di successo, allo stesso modo sarebbe bene non rendere visibile lo staff quando si è commesso un errore. Figuriamoci mettere in piazza firme di contratti o, peggio, rottura di collaborazioni, che sia per visioni divergenti o errori e inadempienze.

Lo staff c’è, lo sappiamo tutti, ma abbiamo bisogno di credere che non esista nessuno tra noi e il politico affinché la forza dei social media si mantenga intatta e con essa, incidentalmente, la credibilità e l’affidabilità del politico: se non è lui che scrive ciò che leggo, quante altre cose non sono sue?

E poi diciamolo: noi social media manager non abbiamo bisogno di visibilità, siamo persone modeste e ci accontentiamo di poco: un contratto di lavoro dignitoso che ci tuteli e un compenso adeguato all’impegno che ci è richiesto.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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