Nei giorni scorsi abbiamo letto fino alla nausea di come lo scorporo della rete faccia bene o- come sembra, per ora- male al titolo di Telecom Italia o di come possa essere la salvezza da un debito insostenibile. Come se fosse tutto qui, come se fossimo tutti azionisti o dipendenti di Telecom. Ma in ballo c’è ben altro e riguarda ciascuno di noi: il futuro dell’innovazione italiana, che è legato a doppio filo con la sorte della rete e, in fin dei conti, anche alla stessa azienda Telecom.
Innovazione: il punto dolente dell’Italia, che ci vede 50esimi al mondo, dopo Malta, secondo il World Economic Forum. A quanto risulta, pochi giorni fa il digital champion italiano Agostino Ragosa (anche direttore dell’Agenzia per l’Italia Digitale) ha ricevuto un avviso a chiare lettere, a Bruxelles, da Robert Madelin della Commissione europea: «mi ha detto: vedete che siete nel G8, non potete permettervi di essere così arretrati nel digitale, ossia in ciò che conta per il futuro dell’economia e della società.
Se volete ancora restare nel G8, datevi una svegliata…», dice Ragosa.
«Da una parte, lo scorporo della rete Telecom è un fatto straordinario, non mai successo in Europa. Dall’altra è l’ultimo atto di una situazione disastrosa», dice a Chefuturo.it Francesco Sacco, dell’università Bocconi di Milano e tra i massimi esperti di banda larga in Italia. «In Italia avremmo dovuto fare dall’inizio lo scorporo, è stato un errore delle liberalizzazioni telefoniche degli anni ‘90. Telecom decide di farlo ora perché ha un debito troppo alto, 27 miliardi di euro, in un quadro terribile per il mercato di rete fissa, in cui da anni non vediamo vere innovazioni», aggiunge. «E’ vero che Telecom e Fastweb hanno cominciato a fare la rete di nuova generazione con fibra fino agli armadi (Vdsl2), ma i piani e le coperture sono troppo timidi», continua.
«Non ci siamo ancora resi conti di una cosa: se continua così, buona parte del Paese sarà lasciata indietro nelle reti veloci», conferma Cristoforo Morandini, di Between-Osservatorio Banda Larga. «Se vediamo i piani degli operatori per la fibra, andiamo verso un digital divide gravissimo per circa il 50 per cento della popolazione italiana, sulla nuova generazione di banda larga. Che tra poco sarà lo standard di connessione, com’è stata finora la banda larga Adsl», continua. E’ come se l’Italia tempo fa avesse deciso di non mettere autostrade in buona parte del territorio. Con l’aggravante che lì ci passano solo le auto, mentre sulle reti informatiche ora ci passano molte cose. E presto ci passerà tutto, in forma digitale. Almeno sarà così nei Paesi evoluti, categoria in cui non verremo più annoverati, se non cominceremo a trattare in modo sistematico e con approccio nazionale i temi dell’innovazione.
Il premier Enrico Letta si è convinto a prendere sotto di sé, direttamente, le competenze per l’Agenda Digitale: primo, timido, segnale positivo di coesione nazionale per l’innovazione. In realtà gli esperti concordano che una svolta fattiva in questo senso è possibile solo se lo Stato prenderà a cuore il destino delle reti di nuova generazione ma anche dello sviluppo della cultura digitale tra utenti e aziende, dove l’Italia è ferma a livelli da Paese in via di sviluppo. La Francia sarebbe un buon esempio da seguire. «Siamo in un doppio paradosso. L’Italia non può permettersi di coprire l’Italia in modo uniforme con le nuove reti ma nemmeno di avere parti del territorio escluse», riassume Morandini. Ne possiamo uscire cambiando le priorità di investimento pubblico, impegnandoci a sfruttare meglio i fondi europei disponibili sulle nuove reti. Che sono sempre sotto utilizzati in Italia, per scarso focus politico su questi temi. Pensate che, secondo le nostre norme, le reti informatiche non hanno ancora nemmeno lo status di infrastrutture strategiche nazionali, il che rallenta investimenti e frammenta la governance. Le norme trattano le reti come pezzi di ferro e plastica, oggetti e cose. Invece sono ponti, porte e finestre verso il mondo.
Lo scorporo della rete Telecom può essere l’occasione per focalizzare le energie del Paese verso il futuro, facendo leva su infrastrutture tlc che diventano finalmente un asset separato e, magari, ad ampia partecipazione pubblico-privata. Su questa strada ci sono tante incognite (come sarà fatto lo scorporo, chi vi parteciperà, se davvero la governance sarà neutrale rispetto a Telecom…), ma al momento è tutto quello che abbiamo su cui puntare.