Sono passati otto anni da quando l’obbligo scolastico è stato riportato a dieci anni, come nella maggior parte dei Paesi europei. A quella riforma partecipò anche il neo eletto Capo dello Stato. E chissà cosa direbbe, oggi, il presidente Sergio Mattarella leggendo i dati diffusi da “Save The Children” nel rapporto “Lavori ingiusti”, secondo cui i minori che lavorano sono 260 mila e in quasi un caso su due (46,6%) i genitori non si oppongono alla decisione del proprio figlio.
Una triste fotografia che ci pone alcune interrogativi: perché i nostri ragazzi abbandonano la scuola? I nostri istituiti sono veramente propedeutici all’attività lavorativa? Può essere la Scuola un’occasione per conquistare i ragazzi anziché perderli?
La scommessa del futuro sta in questo: qualificare i nostri ragazzi perché entrino in un mercato del lavoro non come pezzi di scarto della società ma come ingranaggi fondamentali.
Il tema dell’abbandono scolastico non riguarda solo gli esperti in materia ma le imprese, il mondo dell’artigianato. Chi si ritrova come operaio o garzone un ragazzino di 15 anni poco preparato, con una cultura di base o persino semi analfabeta dal punto di vista digitale, rischia di avere risorse umane sprecate, corre il rischio di avere un’impresa “povera”.
Un fotogramma del film “Sciuscià”, di Vittorio De Sica (1946)
In Italia si inizia anche molto presto a lavorare: prima degli 11 anni (0,3%), ma è col crescere dell’età che aumenta l’incidenza del fenomeno (3% dei minori 11-13enni), per raggiungere il picco di quasi 2 su 10 (18,4%) tra i 14 e 15 anni, età di passaggio dalla scuola media a quella superiore, nella quale si materializza in Italia uno dei tassi di abbandono scolastico più elevati d’Europa (18,2% contro una media EU27 del 15%).
Sembrano numeri, statistiche, percentuali… ma sono i volti di Totò, costretto a fare il panettiere per “campare” la famiglia; di Calogero che dopo essere stato bocciato due volte alla scuola media, ora vende verdura al mercato della Vucciria a Palermo.
Storie che ho incontrato e che incrocio anche nell’opulenta Lombardia dove qualche genitore suggerisce la via del lavoro a quella della scuola.
Il lavoro minorile non fa differenze di genere: dietro i banconi di un bar o sulle bancarelle di un mercato trovi ragazzi così come ragazze. Le esperienze di lavoro dei minori tra i 14 e 15 anni sono in buona parte occasionali (40%), ma 1 su 4 lavora per periodi fino ad un anno e c’è chi supera le 5 ore di lavoro quotidiano (24%).
La cerchia familiare è l’ambito nel quale si svolgono la maggior parte delle attività. Per il 41% dei minori si tratta infatti di un lavoro nelle mini o micro imprese di famiglia, 1 su 3 si dedica ai lavori domestici continuativi per più ore al giorno, anche in conflitto con l’orario scolastico; più di 1 su 10 lavora presso attività condotte da parenti o amici, ma esiste un 14% di minori che presta la propria opera a persone estranee all’ambito familiare.
Tra i principali lavori svolti dai minori fuori dalle mura domestiche prevalgono quelli nel settore della ristorazione come il barista o il cameriere, l’aiuto in cucina, in pasticceria o nei panifici, seguito dalla vendita stanziale o ambulante, dove si fa il commesso o toccano le pulizie, insieme al lavoro agricolo o di allevamento e maneggio degli animali, ma non manca il lavoro in cantiere, spesso gravoso e pieno di rischi, o quello di babysitter.Chi di noi non hai mai notato il volto fin troppo giovane di qualche cameriera o di quel ragazzo che nella campagna cremonese o mantovana passa la giornata su un trattore? Li conosciamo. Ognuno di noi ne ha in testa almeno tre. I dati lo confermano: secondo l’Osservatorio nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza il 30% dei genitori intervistati (1000 tra mamme e papà ) pensa che il lavoro minorile in Italia riguardi solo gli stranieri; il 55% lo considera un dramma dei Paesi in via di sviluppo ma il 17% conosce la storia di under 16 che lavorano. Un numero che riguarda anche il Nord dove la percentuale sale persino al 22-24%.
Basta fare un tour tra i piccoli e medi artigiani della pianura padana, per incontrare ragazzi che dopo la scuola secondaria hanno abbandonato i banchi e lo zaino per fare il muratore, l’aiutante idraulico, l’agricoltore. Conosco under 16 che non aspirano a fare l’università, che già alla scuola primaria sognano di lavorare a 14 anni.
1941 – Un bambino lavora con la morsa al banco. Foto: Archivio Istituto Luce
Ho incontrato giovani delle generazione digitale e ragazzi nati negli anni ottanta che, allo stesso modo, hanno scelto il lavoro al posto dell’istruzione. Al Sud come al Nord. E se l’80% dei genitori ritiene che il lavoro minorile “rubi” la formazione scolastica, si scopre che la crisi economica autogiustifica l’atteggiamento di alcuni genitori.Chi è cresciuto nella crisi resta intrappolato. Secondo il recente “Rapporto Giovani“, promosso dall’istituto “Giuseppe Toniolo” in collaborazione con l’Universita Cattolica e con il sostegno della Fondazione Cariplo, su un panel di cinque mila persone tra i 19 e i 32 anni rappresentativo a livello nazionale, il 75,7% rinuncia a programmare il proprio futuro per affrontare le difficoltà del presente. I nostri ragazzi, secondo questa ricerca, desiderano ancora mettersi alla prova (84%); prendere decisioni da soli; vorrebbero raggiungere la loro autonomia per vivere più liberamente le relazioni di coppia (74,6%) ma troppo spesso e più che in altri Paesi europei, devono fare i conti con le difficoltà di un mercato del lavoro inefficiente.Questo comportamento ha conseguenze rilevanti sulle aspettative sul reddito: la maggior parte dei giovani intervistati dall’istituto “Toniolo” e’ convinto che la retribuzione sarà inferiore di 1500 euro. Una cifra che al Sud scende persino sotto il mille euro.
Questi dati interpellano chi fa impresa, chi il sabato sera si avvale di qualche ragazzina nel proprio ristorante o chi chiama dei minori a dare una mano in cascina.
Qual’è, dunque, la risposta che possiamo e dobbiamo dare al lavoro minorile?I bambini devono fare i bambini. Devono vivere la loro vita, occupare i propri spazi. A loro, ai ragazzi ed alle ragazze italiane, dobbiamo dare un’istruzione di qualità, che sappia raccordare scuola e lavoro, che trasformi le nostre aule in laboratori, in “officine” innovative, che faccia nascere il desiderio di fare imprenditoria o anche solo quello di essere un operaio “qualificato”, un taxista che conosce le lingue, un barista che tra un caffè ed uno spritz coltivi sappia e voglia migliorare, innovarsi: vivere il mondo e non solo servirlo.