Liberare dati serve. Ma nella misura in cui esiste un metodo utile a comprenderli e interpretarli per migliorare la vita della comunità.
Come sempre, nelle dinamiche comunicative sui mass media, ci sono parole che “fanno fico”. Tra queste di recente sembra riscuotere molto successo un termine complesso: Open Data.
Con Open Data s’intendono le informazioni, rappresentate in forma di dati strutturati, fruibili attraverso l’uso di database, e riferite alle tematiche più disparate.Cartografia, genetica, composti chimici, formule matematiche e scientifiche, dati medici e pratica delle bioscienze, dati anagrafici e dati governativi sono solo alcuni degli ambiti da interpretare per capire sempre meglio il mondo in cui viviamo.
Ma posto il fatto che Open Data sia la parola magica, l’abracadabra 2.0, quali sono le chiavi interpretative e quali i metodi usati per farlo?In definitiva, se da domani Pubbliche Amministrazioni, aziende, organizzazioni riversassero in rete tutti i dati in loro possesso, come si farebbe ad interpretarli?
Per rispondere a questa domanda bisogna chiamare in causa uno strumento nato nell’ormai lontano 2000 (nel mondo di internet 13 anni equivalgono ad un secolo!): l’etnografia digitale.
L’etnografica digitale (o netnografia) è uno strumento per capire il mondo al tempo della comunicazione tecnologicamente mediata. È la tecnica di ricerca di marketing online che sonda e capitalizza le conversazioni degli utenti.
E’ una branca dell’etnografia condotta su community virtuali. Ha come obiettivo la comprensione delle dinamiche comunicative tra soggetti in rete.I suoi obiettivi sono molteplici e vanno dalla sicurezza delle comunità cittadine, alla comprensione delle dinamiche di sviluppo della mobilità urbana, passando per le principali scelte dei consumatori su un prodotto o su un brand.
Nella pratica, e senza entrare nei particolari metodologici, quello che accade è:
1) L’acquisizione dei dati liberati (Open Data);
2) L’ascolto delle conversazioni in rete sugli argomenti che riteniamo più sensibili per una determinata comunità (potremmo ad esempio considerare per la città di Potenza la questione della mobilità urbana);
3) L’analisi sia quantitativa che qualitativa (con valutazione del sentiment all’interno delle conversazioni);
4) La traduzione degli insight ottenuti in soluzioni innovative per i servizi considerati, attraverso la visualizzazione dei risultati di analisi.
Liberare dati, dunque, serve, nella misura in cui esiste un metodo utile a comprenderli, per progettare soluzioni innovative che possano migliorare la vita della comunità in cui si vive.
Questo è il contributo che riteniamo oggi possano e debbano dare le Pubbliche Amministrazioni, le aziende, le organizzazioni, i gruppi di studio per agevolare la creazione di quell’intelligenza collettiva di cui tanto, tanto, tanto, il nostro Paese ha bisogno.
Michele CignaraleCoordinatore Gruppo di Studio Netnografica.it