Per i pisani appassionati di ICT (si direbbe oggi) il CNUCE (Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico) apparteneva alla mitologia. Gli sviluppi dell’informatica dei pionieri (quelli che videro il passaggio dalle valvole ai transistor), il Centro di Ricerca di IBM proprio dall’altro lato della strada, il maestro Grossi con il suo TAU2, il gruppo di dinamica del volo, i calcoli per il satellite Sirio, la rete RPCNET… noi studenti dei primi anni dell’università andavamo a recuperare i tabulati (rigorosamente a foglio perforato) di qualche “run andato male” per scriverci dietro i nostri appunti!
Quando l’ho frequentato per la prima volta per imparare ad usare il primo personal computer (IBM!) era già un istituto del CNR, non più “Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico” ma un istituto del “comitato di Ingegneria” ed eravamo ammirati, (e lo siamo ancora!), degli ingegneri che lavoravano li e che all’università ci facevano lezione nell’ambito di qualche nostro corso monografico.
Offire servizi era il nostro obiettivo
Vorrei però cogliere l’occasione per evidenziare che non fu la ricerca (tutta orientata alla definizione OSI – Open System Interconnection – in una poderosa opera di standarizzazione in ambito ISO – International Standard Organization), a guidare gli sviluppi che consentirono l’interconnessione del CNUCE ad ARPANET ma l’esigenza di offrire servizi.
La Cultura del Servizio ha sempre rappresentato una delle missioni più importanti del CNR (quella che in Università oggi forse potremmo chiamare quarta missione – giusto per evidenziarne l’importanza – dopo Ricerca, Didattica, Trasferimento Tecnologico). Eh si, perché il CNR aveva capito per primo che per i suoi ricercatori, per poter fare una ricerca migliore, servivano quelle capacità di spostare file (file transfer), di far girare codici da remoto (remote job entry) e di scambiarsi posta elettronica (servizio questo drasticamente sottostimato in origine) che le reti di calcolatori sapevano offrire.
Il CNR aveva intuito l’importanza di quella che oggi avremmo chiamato un infrastruttura di e-science. La ricerca (sia accademica che industriale), al contrario, in tutto il mondo ed ovviamente anche in Italia investiva tutte le sue forze per superare il modello TCP/IP che aveva guidato gli sviluppi di ARPANET investendo sul paradigma di forwarding denominato Virtual Circuit totalmente diverso dall’approccio Datagramma e destinato finalmente a cancellarne l’esistenza. Al contrario, proprio per sostenere la sua missione orientata ad offrire servizi per la ricerca (per la quale tra l’altro CNR e INFN definirono la specifica figura professionale del Tecnologo) la rete è arrivata fino a noi.
Chi a quel tempo ha usato la rete EARN/BITNET, DECNET FASE V, chi ha osservato governi e operatori telefonici lanciati verso la nuova era della telematica puntando tutto sull’ISO OSI e il protocollo X.25 non può sentirsi raccontare oggi la storiella di uno sviluppo organico della rete.
Non è successo per l’Ethernet in ambito di rete locale, non è accaduto per il TCP/IP. Era cosa ben nota e altrettanto snobbata da chi puntava alle reti del futuro quelle “orientate alla connessione” (X.25, Frame Relay e ATM, modo di trasporto alla base del sogno del Broadband ISDN).
Arpanet e poi Internet erano le reti dei maker dell’epoca
Era la rete dei garagisti, dei cantinari, dei maker diremmo oggi del rough consensus and running code. Un rough consensus che oggi è “community”, che richiede innovazione continua nella formazione per formare i futuri Ingegneri del prossimo CNUCE che guiderà, anche per tutti noi, l’evoluzione delle telecomunicazioni che chiamiamo cloud/fog/edge computing e Internet delle cose.
Una volta, già da universitario, nei tempi in cui ascoltavo i migliori maestri italiani del networking vantarsi (“i miei non sanno neppure mettere una spina!”) assistendo ad una premiazione del prof. Carassa (direttore del progetto Sirio – Satellite Italiano di Ricerca Industriale e Operativa) il Rettore dell’Università che ospitava l’evento all’atto della premiazione dichiarò “Professore, non leggerò il suo curriculum, lo farà certamente qualcuno dopo di me. Ma vorrei dirle una cosa sola: GRAZIE, perché so che ha fatto qualcosa di utile per tutti, qualcosa di utile anche per me.”
Spero che questi ricordi di 30 anni fa ci siano di stimolo per consentire ai nostri ragazzi più giovani di avere dei modelli, delle persone da ammirare, non per il loro opportunismo da “ranking scientifico” ma per quello che, in un egida di servizio, faranno ancora, come fece il CNR, per tutti noi.
STEFANO GIORDANO