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Serve un nuovo modo di lavorare o l’Agenda Digitale non servirà

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Diciamo pure che un po’ di movimento, di sana confusione, si è fatto.

Gli open data stanno entrando sempre più nelle agende della PA e ormai, quasi ogni giorno, troviamo il comunicato di qualche nuovo comune, regione o provincia che si aggiunge al gruppo dei “bravi”.

Poi c’è il neonato Decreto Digitalia con l’articolo 9 che ha messo un punto fermo. Un percorso nato dal basso, da una comunità, da tante storie personali fuse tra loro, alle quali il Governo ha saputo dare quantomeno un segnale.

In fondo ci sarebbero tutte le ragioni per essere contenti: la rete come motore di capitale sociale, che sviluppa i temi etici della rete stessa, della trasparenza della Cosa pubblica, del patrimonio di tutti, trovando almeno un po’ di riscontro nelle istituzioni.

Ma bisogna tenere i piedi per terra, la strada da fare è lunga. E per di più ci vuole anche la testa ben alta per cercare di vedere lontano.

Si dice “liberare i dati” prigionieri nei cassetti e proprio il “179/2012” indica la necessità di costruire dati, per usare una definizione corrente, open by default. È su questi dati “nati liberi” che vogliamo discutere oggi.

E’ evidente che, se mentre ci danniamo per liberare questo o quel dataset, la nostra stessa PA continua a produrre a tutto spiano ulteriori “prigionieri”, la cosa si complica e diventa la fatica di Sisifo, la tela di Penelope: una lotta impari, una partita impossibile.

Su questo tema se ne inserisce uno ulteriore.

Se i dati devono spingere l’economia, dobbiamo mettere le imprese, le stesse startup battezzate dal Digitalia, in condizione di non di ammattire.

Non può dunque accadere che il grafo stradale, piuttosto che i percorsi ciclabili o la mappa delle fermate degli autobus, siano pubblicati secondo formati e modalità diverse da un luogo all’ altro.

Gli open data, nati con le migliori intenzioni, vengono in queste condizioni a perdere buona parte della loro utilità e producono ulteriore entropia nel mondo dei big data.

La seconda questione pare peraltro figlia della prima. Ci chiediamo se per entrambe le questioni la nostra PA sia pronta, abbia minimamente gli attrezzi, o le idee chiare per affrontare la sfida della transizione che stiamo vivendo.

Ci chiediamo se, come appare oggi, “innovazione” sia traguardare il futuro dei nostri uffici pubblici in termini di monumentali PC da scrivania, con desktop ricoperti da decine di icone scompagnate.

Se lo è ragionare di office automation tradizionale, con il client di e-mail, il solito word processor e foglio di calcolo, oltre ai “gestionali” spesso pensati vent’anni fa e sopravvissuti malamente a se stessi, a forza di pezze, nel corso degli anni. Tutto cementificato nell’oggi (anzi nell’altro ieri), senza prospettiva alcuna.

Non va bene, anche e soprattutto perché, dietro le macchine, ci stanno le persone che hanno voglia di crescere e che, tuttavia, sono condizionate dalle stesse macchine a un vecchio modus operandi sul luogo di lavoro (mentre magari, a casa loro sono mille miglia più avanti).

Possiamo dunque costruire openess, e-gov, trasparenza, efficienza da tutto questo?

La risposta è “no”. Anzi, meglio, “Non per molto tempo, non molto a lungo”.

Il futuro sta da altre parti, negli ambienti collaborativi che aprono la mente al confronto e cambiano lo stile di lavoro, nei social che rimodulano la comunicazione interna e esterna, nei desktop virtualizzati che sganciano dalla scrivania e aprono a nuovi paradigmi di “ufficio pubblico”, nei thin clients dove gli orticelli di dati chiusi al resto del mondo non trovano più spazio.

E si potrebbe andare avanti.

La cosa preoccupante non è tanto il fatto che non abbiamo queste cose oggi, belle e scodellate nei nostri uffici, ma piuttosto che il relativo dibattito appaia irrimediabilmente sbiadito, lontano, ovattato. Come se il problema non esistesse e tutto fosse di là da venire.

Diciamo questo perché, tanto per fare un esempio, la partita del cloud computing (che con tutto ciò ha molto a che fare), dopo un dibattito acceso e tante promesse, sia sparita, smaterializzata, evaporata nel nulla, nella scrittura del Decreto. Come se non se ne fosse mai parlato.

Si dirà che pensare in grande significa immaginare una rivoluzione totale della PA: transizioni tecnologiche, nuova professionalizzazione di un immenso esercito di funzionari, un delirio. In effetti è esattamente così. E bisogna pure farlo, o almeno pensarci seriamente, al più presto.

E in questi tempi di crisi nera, oltre ai temi etici, torniamo al discorso del business.

Impresa e PA sono legate, anzi ammanettate da una sequela di procedure, pratiche, adempimenti. Sono purtroppo vincolate, per amore o per forza, a dialogare e cooperare.

Se la PA non corre, l’impresa perde di competitività e, nella rat race globale, ci lascia pure le penne. Basta rileggersi il documento ormai annoso dell’Agenda digitale europea per rendersene conto.

E per di più ci sono, come si diceva, i dati.

In Europa, già oggi, non vince più chi ha le informazioni che altri non anno, ma chi è capace di integrare e gestire meglio quelle che tutti hanno.

Se la nostra PA non guadagna efficienza e alimenta il sistema delle imprese con un flusso sistematico e omogeneo di dati, non aiuta il nostro Paese ad uscire dalla crisi. Già adesso, non lo fa come dovrebbe.

Dunque, o si immagina un nuovo modo di lavorare o non ce la faremo.

E così torniamo a quanto già detto a proposito delle smart city: non possiamo aspettare che, in una stravagante inversione dei ruoli, siano le grandi corporation a determinare le nostre decisioni sulla cosa pubblica. Forse è bene pensarci e, questa rivoluzione farla adesso, prima che sia troppo tardi.

Firenze, 18 Novembre 2012

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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