È noto che quando un argomento diventa di dominio pubblico, è probabile che peggiori il modo in cui viene trattato, perché aumentano di molto le voci che ne parlano, e tanti si improvvisano esperti per inseguire l’hype. Naturalmente non intendo attribuirmi da solo la qualifica di esperto (non lo sono), né, ancor meno, censurare alcune scelte linguistiche. Ciò che mi interessa è provare a indagare più a fondo il fenomeno che ora incuriosisce migliaia di italiani, genera articoli e trasmissioni televisive.
Intendo tratteggiare un ritratto dell’eterogenea comunità indicata col termine “makers”, analizzando in che modo i suoi membri si pongono in rapporto col nostro sistema economico, producono conoscenza che può avere rilevanza industriale e creano prodotti che possono essere commercializzati o possono sostituire prodotti di uso comune.
Quale sarà l’impatto dei makers è difficile da prevedere. Le categorie che ho identificato negli anni, basandomi sull’autopercezione delle persone che incontravo e sui valori che ritenevano importanti, sono queste:
- Makers: credono nella condivisione della conoscenza, usano le tecnologie di personal fabrication per auto produrre o riparare ciò che gli serve; non ambiscono a vendere i loro prodotti.
- Inventori: credono nella condivisione ma, talvolta, vi possono rinunciare, per esigenze di business; usano le tecnologie di personal fabrication per prototipare le loro invenzioni; ambiscono a vendere le proprie creazioni.
- Artigiani digitali: il possesso di competenze “segrete” è all’origine del loro successo professionale: difficile che le condividano; allo stesso tempo, risolvono sempre più spesso problemi in maniera collaborativa; si servono degli strumenti di personal fabrication per aggiornare i loro prodotti e creare pezzi sempre migliori.
- Designers: molti hanno abbracciato l’autoproduzione, altri la condivisione, altri la passione per gli smart object; collaborano un po’ con tutti con una logica ovviamente commerciale.
- Service providers: permettono a tutti di lavorare fornendo stampa, taglio, lavorazioni quasi industriali; sono tecnici esperti di macchinari di personal fabrication, condividono il loro know-how, hanno una logica commerciale.
1. I makers ambiscono a un mondo di scambi fisici ridotti, anche perché vengono ridotti i consumi inutili, un mondo dove esistono forme di produzione e proprietà diffuse. Credono che chiunque possa diventare un maker e si battono perché ci sia un tutorial per ogni cosa. La trasparenza è per loro un valore centrale, insieme all’uso di licenze aperte. Il loro impatto sul sistema economico è, a oggi, limitato.
La loro filosofia, quasi “anarchica”, non li ha ancora spinti a creare alternative open source per i prodotti di consumo, o comunità di produttori autonome – al momento gran parte delle motivazioni dei makers stanno nel divertimento. Progetti più impegnativi, che vadano oltre l’ennesima stampante 3d, utile forse solo per comunicare a novizi, richiedono in effetti grandi risorse: progettuali, temporali, economiche. Rifacendomi alle distinzioni di Dale Dougherty, fondatore della rivista Make, in questa categoria rientrano i suoi “maker to maker”.
2. Gli inventori hanno due strade: la loro trasformazione in imprenditori, accedendo al credito del crowdfunding o dei venture capitalist, oppure la loro collaborazione con imprese già affermate. Possono creare effetti positivi per il capitalismo se, attraverso il crowdfunding, riescono a fondare imprese illuminate, oppure, se riescono a imporre alle aziende con cui collaborano modalità di rilascio delle licenze aperte. Perché questi due scenari si sviluppino è importante l’auto-organizzazione: serve una rete di aspiranti crowdfunder per condividere le difficoltà, che si appoggi a sua volta su una rete di realtà capaci di ingegnerizzare per la produzione (o produrre) e, infine, su un sistema di matching makers-imprese. Nella classificazione di Dougherty, sono i “maker to market”.
3-4. Artigiani e designers impattano sulla domanda di strumenti e conoscenze di personal fabrication e sono in grado di raggiungere più facilmente il grande pubblico, creando prodotti che attirano per bellezza e originalità. Talvolta comunicano argomenti e valori open senza troppa consapevolezza, ma, allo stesso tempo, sono diventati coscienti dell’importanza della comunità: per trovare clienti e fornitori, per risolvere i problemi tecnici che incontrano nel loro lavoro (se non ci credete, date un’occhiata qui). Se le tecnologie rendono più semplice la vendita a distanza, è probabile che vedremo un rifiorire delle attività artigianali, più capaci di seguire le esigenze di consumatori che sfuggono lo standard.
5. I service providers, infine, hanno interesse a che la domanda di competenze si accresca ulteriormente, sono molto pr
atici nelle proprie azioni e contaminano gli altri attori in maniera anti-ideologica. Possono catalizzare la diffusione dell’autoproduzione in senso ampio se diminuiscono i prezzi e investono in innovazione tecnologica; occorre infatti migliorare la progettazione dei loro servizi, affinché siano accessibili e semplici da utilizzare ma anche ben integrati tra loro, flessibili di fronte alle esigenze produttive e, allo stesso tempo, in grado di scalare a fronte di grandi numeri richiesti. Marco Bocola, per spiegarmi il concetto, mi ha fatto un esempio tratto dall’economia digitale, quello di Amazon Web Services: un servizio accessibile e personalizzabile, capace di mettere a disposizione di un singolo sviluppatore o startup una potenza di calcolo enorme e scalabile insieme agli utenti del suo progetto.
Come si combinano queste cinque categorie? Come possono integrarsi in maniera costruttiva?
Prima parlerò delle minacce, già visibili. Incontro sovente delle incomprensioni tra chi ha una più forte consapevolezza sociale del proprio ruolo e chi invece si avvicina al mondo dei makers per rivitalizzare i propri prodotti. Iniziative improvvisate nascono come funghi, e al Fuori Salone milanese ne abbiamo viste ancora parecchie. Tra artigiani e attivisti maker non corre buon sangue: i primi creano pezzi molto costosi e lottano contro le grandi corporation solo perché queste competono in maniera sleale; i secondi intendono dare vita a un mondo in cui chiunque può essere artefice di ciò che gli occorre condividendo conoscenza.
Eppure un punto di contatto c’è, ed è forte: entrambi si battono per un mondo della produzione più umano, un rapporto col proprio lavoro meno alienante; puntano a una svolta culturale utile per milioni di neet e disoccupati: una riscoperta della manualità per costruire nuove professionalità sempre più richieste. La soluzione che vedo? Costi più bassi per gli artigiani, grazie a personal fabrication e vendite più elevate (e-commerce specifici), maggiore apertura e formazione da parte loro per creare nuovi posti di lavoro.
Anche tra makers e inventori ci possono essere incomprensioni: se i secondi utilizzano i primi per risolvere i problemi dei propri prodotti, ma poi finiscono per chiudere le licenze, creano danni alle comunità open source e minano le motivazioni a partecipare. Pare stia accadendo con Makerbot, speriamo non si ripeta con altri progetti.
Nonostante alcuni attriti, sono ottimista riguardo alla possibilità di trovare dei punti di contatto tra le anime tecno-manuali di cui sopra. Per quanto i makers abbiano aspirazioni diverse dagli inventori, a mio avviso la reciproca collaborazione è decisiva per entrambi. I makers hanno bisogno di macchinari a bassi costi, di risorse pubbliche, di sponsor che investano nella loro opera di divulgazione e attivismo. In cambio, producono la conoscenza (teorica e pratica) che useranno anche gli inventori. Gli inventori hanno maggiori capacità manageriali, sanno convogliare efficacemente le risorse che sono disponibili sul libero mercato e confrontarsi con attori rilevanti in economia (imprese, investitori). Gli inventori possono anche sopravvivere senza i makers, sono sempre esistiti, d’altronde, mentre i makers, superati i primi anni di entusiasmo, dovranno consolidare modelli di sostenibilità economica per i propri spazi (fablab e affini). E non è detto che ci riescano.
Perché si instaurino formule di collaborazione efficaci, occorre che siano trasparenti. Mi spingo ad affermare che servano regole comuni e un minimo di filtro sulla comunicazione.
Può aver senso l’arrivo in Italia del succitato Make Magazine? Forse, ma non in versione cartacea, non vedo sufficienti volumi. Eppure alcuni punti di riferimento servono in questa fase, per evitare di dare informazioni sbagliate: in rete in tanti stanno aprendo blog per comunicare le proprie considerazioni. L’idea del sito di Make in Italy era di ospitare i migliori contributi, selezionando, per chi si avvicina la prima volta, le letture di migliore qualità – il tutto in maniera trasparente, basandosi sui giudizi della comunità. Purtroppo non siamo ancora riusciti a realizzarla.
Servono inoltre regole condivise per creare sponsorizzazioni pulite (una sorta di decalogo?) o per gestire licenze aperte in progetti for profit, per valorizzare i contributi delle comunità di sviluppatori senza sacrificarle agli investitori. Tanto lavoro di coordinamento che deve andare oltre le idiosincrasie che, al momento, non possiamo permetterci.
Milano, 14 maggio 2014ANDREA DANIELLI