Sharing di mercato o sharing sociale, dove va la nuova economy

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Ho passato molto tempo questo inverno a ragionare su quello che era rimasto della sharing economy. Di fronte ai tanti articoli di giornale sui suoi lati oscuri, alle molte difficoltà delle piccole startup italiane, alle problematiche intrinseche del modello di servizio che offre, al dualismo tra una sharing di mercato (poco collaborativa) e sharing sociale (poco sostenibile), ad un certo punto mi ero quasi rassegnata al fatto che i processi collaborativi avevano perso gran parte della loro carica innovativa. Poi come spesso accade, un semplice episodio aiuta a mettere in fila sensazioni, letture, incontri, e tutto si sbroglia improvvisamente.

Ora siete una comunità, gli ho detto, imparate a mettere in condivisione le vostre competenze e il vostro tempo, ne nasceranno opportunità per tutti

Così è stato quando, un pomeriggio, ho scoperto che il negozio sotto casa specializzato in abbigliamento per runner, non si limitava a vendere prodotti, ma agiva come piattaforma abilitante per i suoi clienti.

Verde Pisello, questo il nome volutamente popolare del negozio, infatti, non è solo un negozio ma anche un gruppo – che è poi diventato un’associazione – voluto dal proprietario per riunire gli amanti della corsa, fare squadra, agire come gruppo da acquisto: “Insieme”, racconta il proprietario Paolo Fossati, “possiamo ottenere sconti sulle gare, ma anche su alberghi, abbigliamento e tutto ciò che ci può servire”. Un gruppo, passato da 60 iscritti del 2010 a 250 persone, che Paolo, nell’ultima riunione, ha provato a attivare: “Ora siete una comunità, gli ho detto, imparate a mettere in condivisione le vostre competenze e il vostro tempo, ne nasceranno opportunità per tutti”. Alcuni lo fanno già: il fotografo scatta le immagini ufficiali del gruppo (“così otteniamo foto scontate e lui ha più lavoro), il web developer lavora al sito, un manager sta pensando a fare accordi con le aziende.

“Molti si mettono a disposizione del gruppo, ma se iniziassero a collaborare fra loro, crescerebbero le occasioni di lavoro e di risparmio per tutti”. E Paolo, cosa ci guadagna? “Il gruppo mi occupa l’80% del mio tempo, ma prima avevo un negozio, oggi una piattaforma di relazioni”.

La distruttiva normalità sharing

Ecco, quando ho conosciuto Paolo ho capito che se il negozio sotto casa mette in pratica logiche collaborative – senza saperlo – allora la sharing economy non è più soltanto un percorso di innovazione sociale e/o di mercato ma un cambio di paradigma culturale irreversibile che sta impattando in maniera diversa in tanti diversi settori (molti di più di quel che si immagina) come racconteremo nella prossima edizione di Sharitaly che si terrà a Milano il 15 e il 16 novembre prossimi.

Una distruttiva normalità come l’ha chiamata Ezio Manzini nel suo recente intervento al Ouishare fest. Distruttiva, perché causa ed effetto di un profondo cambiamento culturale che si esprime nel modello a piattaforma che l’economia collaborativa promuove. Un modello aperto perché prevede una piattaforma che abilita e non più un ente che eroghi servizi e prodotti; comunitario, perché ognuno mettendo in condivisione produce valore per l’altro; inclusivo perché più si è, meglio è; reputazionale, perché la fiducia è la nuova moneta che muove le relazioni. Un modello che, per citare Annibale D’Elia alla Sharing School di Matera, è frutto, prima di tutto di un cambiamento dei cittadini di oggi. Sempre più attivi e connessi oggi si è sempre più abituati a considerarsi parte di una rete e non più di una costruzione gerarchica delle cose e della società.

FINANZA, SCIENZA, SANITA’

Un modello che, proprio perché è figlio di una trasformazione culturale, sta crescendo spontaneo in diversi ambiti. Non solo nell’accoglienza e nella mobilità, regno delle grandi piattaforme internazionali che, pur con tutte le loro contraddizioni, stanno svolgendo una potentissima azione culturale, abituandoci a condividere e a immaginare soluzioni diverse da quelle a cui eravamo abituati fino a qualche tempo fa; ma anche nella finanza (dal crowdfunding, alle monete alternative, al blockchain), nell’educazione dove ormai milioni di persone accedono liberamente ai corsi online messi a disposizioni da università e da pari, nella scienza dove i cittadini con i diversi ruoli collaborano alla ricerca; nella sanità dove si sperimentano sempre più spesso sistemi aperti di ascolto fra pazienti; nella cultura dove attraverso le relazioni si scoprono nuovi modi di rileggere le opere e condividere passioni. E così via. Ogni settore, con una maturità e pratiche differenti, sta sperimentando il modello collaborativo che, attraverso i coworking e non solo, sta diventando anche motore di accelerazione e cambiamento per i nostri territori. “I community hub mettono anzitutto al centro la relazione persone-comunità” si legge nel position paper (http://www.communityhub.it/) di Avanzi, Dynamoscopio, Kilowatt, Sumisura, “Attraverso la relazione e il riconoscimento reciproco (in questi luoghi) si moltiplicano le occasioni di scambio, si intrecciano pratiche di prossimità, si socializzano immaginari di futuro: le persone divengono risorsa per i gruppi e le reti di prossimità e, viceversa, i vicinati e le comunità di affinità diventano palestre di capacitazione per le persone”. Coworking, incubatori, mercati, che da Matera (http://www.benetural.com/) a Bergamo (http://www.artilab.eu/), da Alessandria (http://www.lab121.org/) a Salerno (http://www.ruralhub.it/it/), da Milano (http://www.mercatolorenteggio.it/) a Palermo (http://www.coworkingpalermo.net/) si stanno trasformando – per dirla alla Venturi – da spazi a luoghi, piattaforme abilitanti per associazioni, gruppi, cittadini, imprese che lì trovano un luogo dove esprimersi, sperimentare, mostrarsi, riflettere, creando comunità multistakeholder dalle “governance allargate ed inclusive che superano la dualità pubblico-privato per includere altri attori del territorio e soprattutto i cittadini”.

La maturità delle piattaforme

Una trasformazione pervasiva e dunque distruttiva quella promossa dal modello collaborativo, ma non ancora normale, dal momento che questo termine sottintende un certo grado maturità che invece, a mio parere, non è stato raggiunto. Non sono, infatti, ancora mature le grandi piattaforme internazionali che sembrano, piuttosto, bambini cresciuti troppo in fretta, per volere di fondi di investimento che, approfittando di un buco normativo, hanno gonfiato alcuni servizi fino a portarli a un valore di mercato più potenziale che reale, con il senso di precarietà tipico di chi è dovuto diventar grande velocemente, alimentato anche dal fatto che, in qualità di piattaforme che abilitano persone, rispondono a dinamiche emotive ancora poco comprensibili e prevedibili (chi avrebbe mai previsto, per esempio, la scomparsa di Myspace o di Flickr che nei primi anni duemila sembravano ormai imposte sul mercato?). Non sono mature neanche le applicazioni nei diversi mercati di cui si diceva sopra, alcune ancora molto iniziali, altre ad uno stadio più avanzato – almeno in termini di utenti – ma di cui non si prevedono i termini di crescita né, tantomeno, il conseguente reale impatto. E non è maturo il modello collaborativo stesso sia dal punto di vista normativo dove, nonostante la discussione si sia aperta in Italia e in Europa, rimangono margini di incertezza su cosa e quanto sia giusto normare, sia dal punto di vista del design. Non si conoscono ancora, per esempio, gli strumenti che facilitano l’innescarsi di quel network effect necessario per garantire la crescita dei servizi, e neanche le attenzioni che si devono porre nella progettazione per garantire una scalabilità della piattaforma che non perda di vista la capacità di generare beni relazionali. Il modello collaborativo, infine, non è maturo neanche dal punto di vista sociologico per cui ancora non si conosce quanto quei legami che queste piattaforme sembrano generare siano davvero capaci di produrre cambiamento.

Resta sempre il dubbio se questa strada si orienterà di più verso una logica di mercato o una più a vocazione sociale

Insomma se penso oggi allo stato dell’economia collaborativa, credo che, invece, di essere al suo punto terminale sia a quello iniziale e che rimanga ancora tanta strada da fare. Resta sempre il dubbio se questa strada si orienterà di più verso una logica di mercato o una più a vocazione sociale anche se, credo, proprio perché figlia di una trasformazione culturale questa trasformazione sarà percorsa in entrambi i lati. Le esperienze più interessanti, tuttavia, saranno, a mio parere, quelle che sapranno unire i vantaggi sociali con quelli di mercato ricomponendo la narrazione iniziale delle prime piattaforme di sharing e costruendo una terza via – un’altra ibridità – che ci aiuterà a scoprire nuovi e forse anche più affascinati orizzonti.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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