Sharing economy, che cosa frena le startup (intervista tripla)

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Parliamo spesso di startup. Eppure, nonostante l’entusiasmo, qualcosa ancora non funziona come dovrebbe. Molti criticano l’eccessiva retorica attorno a questo tema, che rischia di diventare un tormentone di forte impatto nel mondo della comunicazione, ma con scarsi risultati effettivi. Molti pensano che si investa troppo sui contenitori, siano essi programmi di accelerazione o premi, piuttosto che su singole che hanno bisogno di crescere con meccanismi sani e solidi di venture capital. C’è chi sottolinea l’esiguità di capitale effettivo a disposizione delle idee e chi mette in evidenza il limite di un paese che trova i suoi principali ostacoli nella soffocante regolamentazione e nella pesantezza della burocrazia. Poi, ci sono loro. Chi l’impresa la fa sul serio, e si è abituato a un regime di selezione naturale giocata sulle effettive capacità di problem solving tra organizzazione dei servizi, gestione aziendale e e strumenti di marketing e comunicazione.

Ho chiesto a tre imprese, diverse per tempi di presenza sul mercato e tipologia di attività (solo due sono in effetti startup), un parere sull’attuale situazione. Le tre realtà sono Cocontest, Gogobus e iCarry.

Alessandro Rossi, Cocontest

Cominciamo con Alessandro Rossi, co-founder di Cocontest, che ha una visione molto chiara del momento storico rispetto al settore dell’innovazione.

Si parla molto di startup. A dire il vero a volte si ha l’impressione che se ne parli troppo. I dati, però, parlano chiaro. Le giovani imprese italiane faticano a trovare interlocutori che possano accompagnarli in una crescita sensata ed efficace sul mercato. Da cosa dipende, questa distanza tra l’idea e la sua effettiva realizzazione?

Le startup italiane non crescono, tranne rarissime e per altro relative eccezioni, perché il sistema è pensato per non farle crescere, o almeno è strutturato in modo tale che nessuna abbia veramente la possibilità di farlo.

Mi spiego meglio: noi abbiamo moltissimi acceleratori, facciamo un fiume di microseed da 30-50K che non servono a nulla (senza parlare della proliferazione di premi e premietti da 10K, che sono veramente utili solo ad illudere dei giovani ragazzi) perché poi sarà praticamente impossibile chiudere un Serie A. Non conosco i numeri precisi ma il meccanismo è chiaro ed è più o meno questo: su 100 startup che prendono un microseed, 30-40 riescono a prendere (il più delle volte a rate, non fatevi ammaliare dagli annunci di fundraising sui blog di settore) quello che in Italia definiamo un Seed, cioè dai 200 ai 600-700K. Di queste però solo 3-4 faranno un Serie A da 2-4 milioni e nessuna farà mai un Serie B da 20-30 milioni (almeno non in Italia e certamente non da fondi italiani).

Ora, a meno che non si tratti di siti di e-commerce con orizzonti di scalata molto locali, per scalare veramente una startup innovativa deve arrivare a fare almeno un Serie B se non Round ancora più grandi. Dunque o fai il giochino in Italia, e poi vai all’estero a cercare i soldi veri, oppure ti tengono in vita con 50K all’anno, lavori gratis per far fare i belli ai vari acceleratori di turno, e poi fallisci avendo perso un mare di tempo e di energie. Il discorso è molto, molto serio e riguarda il futuro di migliaia di giovani italiani, forse i migliori, sicuramente i meno omologati, i più creativi e coraggiosi. Eppure nessuno ne parla, magari lo scrupolo è far arrabbiare il mini investitore di turno.

Parliamo della necessità di trovare un ecosistema propizio all’innovazione. Per farlo, mi sembra evidente, è necessario portare a convergenza diversi fattori: la natura del territorio, l’intenzionalità politica, gli obiettivi delle aziende, gli attori che, tra istituzionale e privato, lavorano per far crescere il sistema impresa. Tu parli di una distanza tra chi sviluppa una startup (continuiamo a chiamarla così) e chi fa le leggi (ovvero, prepara le condizioni). Quale potrebbe essere una ricetta favorevole?

Detto che il vero problema è l’atavica mancanza di finanziamenti, in particolare dei tagli dal Serie A in su (se ci fossero i soldi noi avremmo diversi team in grado di portare la loro startup a diventare l’incumbent internazionale del proprio mercato), sicuramente il legislatore e in generale il pubblico sono i soggetti più distanti dalla cultura dell’innovazione digitale a cui facevo riferimento nella precedente risposta. La ricetta è ghettizzare chiunque sostenga la malsana, e sempre di moda idea che si possa fare l’ecosistema innovativo all’italiana! Per queste persone qualsiasi cosa si fa, si fa all’italiana, che poi vuol dire farla malissimo o non farla proprio. Semplicemente, e con maggiore umiltà, si deve copiare da chi l’innovazione digitale la fa serissimamente da decenni e continua a farla: cioè la Silicon Valley. Non inventare astruse ricette nostrane, sfornate da personaggi che non hanno mai fatto una startup in vita loro o peggio non ne hanno mai nemmeno utilizzata una, ma semplicemente concentrarsi a rendere il terreno il più fertile possibile per le nostre startup, per quelle italiane. Faccio giusto un esempio, ma ce ne sarebbero decine e decine: uno dei fattori che storicamente ha influenzato la crescita degli investimenti di Venture Capital in Usa è stata la possibilità data ai grandi fondi pensione di diversificare il portafoglio, investendo anche in società innovative contro equity. Immagina se Inarcassa investisse milioni su progetti come CoContest, invece di denigrarlo pubblicamente sui vari blog del settore. Diversamente, vedo che anche il nuovo sindaco di Roma, che se non sbaglio ha solo 38 anni, dichiara (se pur in campagna elettorale) che è contro Uber e a favore dei tassisti Allora capisco che non c’è davvero futuro per un ecosistema innovativo in Italia. Sono proprio le startup (in questo caso le grandi aziende) disruptive come Uber che cambiano il mondo, il mercato del lavoro ed in generale la società, rendendo il tutto più dinamico, flessibile e meritocratico. Noi invece non solo abbiamo rinunciato in partenza a creare i nostri Uber (colpa degli investitori, non dei politici in questo caso), ma addirittura vogliamo negare ai nostri cittadini (consumatori) i vantaggi connessi alle rivoluzioni che vengono create nel resto del mondo. Pazzesco.

Il legislatore dovrebbe essere concreto e cercare di limitare le startup solo quando ci siano veri, e sottolineo veri, rischi per la sicurezza del consumatore

Ci troviamo tra blocchi con interessi molti chiari. Chi difende una professione e chiude a ogni liberalizzazione (corporazioni o ordini professionali), chi si è imposto sul mercato come nuovo intermediario digitale (grandi newco e corporate), chi lotta per dare senso all’innovazione come ammodernamento del paese (hub, coworking, centri di social innovation). E’ possibile trovare un equilibrio tra questi diversi attori?

Ti rispondo sinceramente: no. Non c’è da trovare nessun ennesimo compromesso, semplicemente bisogna cambiare la cultura del lavoro in Italia, che è una cultura ideologizzata, sindacale e basata sulla retorica anacronistica del posto fisso. Su questo tema credo sia cruciale la distinzione tra lavori a basso livello di specializzazione (ad esempio il tassista, tutti alla fine sappiamo guidare una macchina) e lavori ad alto livello di specializzazione (esempio l’architetto con CoContest). Infatti se l’innovazione web (vedi Uber) nel primo caso rivoluziona le dinamiche del lavoro in quei mercati, permettendo a tutti di sostituirsi ad esempio al tassista, nel secondo caso è solo un mezzo nuovo, più dinamico, ecologico, trasparente e moderno di far concorrere tra loro i professionisti del settore e dunque non permettono al cittadino qualsiasi di sostituirsi al professionista. Questa distinzione è importante, infatti sicuramente le startup della prima categoria sono ancora più pro-consumatore e rivoluzionarie di quelle della seconda, ma anche, probabilmente, più rischiose sotto il profilo della transizione per i vecchi professionisti del settore. La mia personale idea è questa: il legislatore dovrebbe essere concreto e cercare di limitare le startup solo quando ci siano veri, e sottolineo veri, rischi per la sicurezza del consumatore. Come esempio ti faccio il mio cavallo di battaglia, tu dove hai mangiato da piccolo la stragrande maggioranza delle volte? Immagino come tutti noi a casa grazie alla cucina di mamma o di nonna. Ora se sei ancora vivo, come lo siamo tutti noi che leggiamo quest’articolo, vuol dire che pur senza aver superato i controlli sanitari la cucina di tua madre era sicura. Ergo, non c’è alcun vero motivo di sicurezza per limitare l’home restaurant, se poi il motivo è la tutela degli investimenti sostenuti da chi fa un determinato mestiere in maniera tradizionale o di presunta equità concorrenziale, allora dovremmo vietare per concetto qualsiasi tipo di innovazione vera nei modelli di business. Lo stesso ragionamento si può fare per Uber e i tassisti ad esempio. Poi noi, come amiamo fare, andiamo oltre e vogliamo bloccare perfino quelle piattaforme come CoContest che non permettono alla collettività di sostituirsi ai professionisti del settore, in nome della dignità della professione o di qualche altra eresia anacronistica. Ci sono varie situazioni emblematiche, pensa al caso di Soundreef che dovrebbe essere un vanto made in Italy e invece ha subito resistenze da parte della politica per proteggere un monopolio vecchio e cattivo come quello della Siae.

Caso Cocontest. Ormai al quarto anno. Non più nel ciclo delle startup. Numeri ottimi e una sfida alla chiusura di una professione ben accolta in fondo dal settore. Si può pensare di costruire in Italia o la via dell’esternalizzazione alla fine è l’unica possibile?

Per CoContest noi stiamo continuando a lavorare principalmente dall’Italia. Infatti, se pur la nostra sede legale è ormai a San Francisco, la maggioranza delle nostre operation si svolge in Italia e stiamo continuando ad assumere in Italia. Quindi assolutamente si, vogliamo sviluppare il nostro business mantenendo le nostre radici qui, e se sarà possibile cercando di aiutare il mercato della progettazione architettonica italiano a uscire da una crisi strutturale senza precedenti. Come ti ho detto, però, purtroppo il passaggio all’estero è un passaggio obbligato dalla struttura ontologicamente fallimentare del nostro mercato del Venture Capital, oltre che dalla scarsa presenza di una cultura e di competenze vere in materia di digitale e di startup.

La proposta di legge sulla sharing economy?

La legge ha diversi, anzi molteplici, aspetti che avrebbero un effetto drammatico su un ecosistema innovativo già di per se fragile ed incoerente come il nostro. Detto questo, va anche apprezzata la lungimiranza e la determinazione dei primi firmatari della proposta di legge, che per primi hanno capito la necessità di regolare il settore sotto il profilo fiscale e la necessità di farlo, il più possibile, con un approccio trasversale. Poi da regolare l’aspetto fiscale a tutto quello che è finito dentro quella bozza di legge ce ne passa. Credo la colpa sia della grande confusione che esiste, anche tra i cosiddetti addetti ai lavori, sul tema della sharing economy. Forse se si fossero davvero convocati ed ascoltati i protagonisti italiani della sharing economy, cioè le nostre startup, si sarebbe arrivati ad un testo di partenza migliore, ma per fortuna c’è ancora tempo per migliorare.

Alessandro Zocca, GoGobus

Alessandro Zocca è il founder di GoGobus, un’intelligente startup che opera nella mobilità in modalità sharing economy. A lui, ho chiesto un parere sulla fase che stanno vivendo e su dove concentrare le energie per favorire la crescita dell’impresa digitale.

Gogobus è un’idea molto intelligente. La cosa che mi ha colpito di più di questo progetto è che intercetta un reale bisogno. Non nasce, come spesso ci capita di vedere, dalla semplice capacità creativa di pensare a un servizio in modalità sharing economy. Come nasce un’idea di sharing economy?

Dal nostro punto di vista nasce proprio come i principi del vero marketing insegnano: analizzando i bisogni del consumatore e cercando di soddisfarli, se poi siamo di fronte a una situazione in cui c’è della capacità produttiva inutilizzata o non ottimale – proprio come per le aziende di autobus cui noi facciamo riferimento – ancora meglio ed ecco che il concetto di sharing entra da solo nel business.

Sicuramente le corporazioni, la politica e soprattutto la burocrazia non aiutano le giovani imprese

Con Alessandro Rossi abbiamo parlato a lungo dei problemi delle giovani startup italiane. Il problema sembra essere una visione miope rispetto al valore imprenditoriale di alcuni progetti, oltre a un sistema sfibrato dall’eccessivo peso della politica, della burocrazia, delle corporazioni professionali. Qual è il tuo punto di vista?

Sicuramente le corporazioni, la politica e soprattutto la burocrazia non aiutano le giovani imprese. Non è però nemmeno giusto aspettarsi che ci sia qualcuno a dare sempre una mano e a spianare la strada prima: bisogna combattere, volenti o nolenti. Questo tipo di situazione sicuramente crea più danni che benefici, ma forse aiuta anche a creare un sistema per il quale solo i migliori e i più forti ce la fanno. Certo che così facendo anche i migliori fanno il doppio della fatica e potrebbero usare il proprio tempo per far crescere la propria impresa. Un po’ di equilibrio in più non guasterebbe…

Giovani startup come la vostra, che si stanno contraddistinguendo anche per la competenza nel disegnare un preciso posizionamento di mercato, rischiano di avere difficoltà nel reperire finanziamenti. Premi, acceleratori, fondi servono realmente oppure hanno un effetto limitato sulla possibile crescita di un’impresa?

Le difficoltà ci sono e sono evidenti, ma il problema più grosso non è quello di reperire investitori, ma di reperire investimenti consistenti che permettano a un’impresa di crescere veramente. Premi, acceleratori e fondi servono sicuramente, ma solo all’inizio in fase di early stage per avere delle risorse per validare il prodotto sul mercato. Successivamente, credo che inseguire premi sia una fatica sprecata: si sprecano un sacco di risorse per inseguire i bandi, avendo limitate probabilità di ottenere i fondi che sono quasi sempre bassi e non fanno la vera differenza per la crescita di un’impresa. Anzi, spesso, secondo il mio pensiero, servono soltanto a prolungare l’agonia di progetti o startup che – pur avendo avuto buone idee – non sono state in grado (o hanno avuto fortuna) di trovare capitali più importanti. A mio avviso meglio concentrare gli stessi sforzi nella ricerca di un partner di capitali più consistente.

E’ possibile crescere in Italia o a un tratto diventa necessario puntare all’estero e cercare di crescere esternalizzando l’organizzazione del servizio in ecosistemi più maturi sul fronte dell’innovazione di processo o di prodotto?

Credo che la risposta più corretta, prima di pensare agli ecosistemi, sia pensare al mercato e fare anche un ulteriore distinguo: mercato e mercato dei capitali. Sul secondo, se i piani (e le ambizioni di crescita) sono ampi molto probabilmente è necessario andare all’estero, sul primo invece non credo, si può iniziare a puntare sul nostro Paese. L’Italia è un Paese grande e relativamente ricco dove le opportunità non mancano; tornando anche a livello di ecosistema, ci sono tantissime persone giovani preparate, intraprendenti e competenti.

Quali sono i vostri prossimi step?

Migliorare la nostra app, aprire la vendita anche alle agenzie di viaggio e continuare l’espansione del nostro servizio nel centro e sud Italia. Non nego che stiamo anche guardando anche ad opportunità oltre confine, ma questa è un’altra storia.

Gabriele Ferrieri, iCarry

Gabriele Ferrieri, cofounder del progetto iCarry, interviene da un altro punto di vista, che tocca il fattore culturale. È necessario creare più consapevolezza rispetto al mondo delle startup, che possa mettere in evidenza il valore e il senso delle idee e accompagnarle sul mercato superando resistenze al cambiamento, abitudini, paure e diffidenze.

iCarry è una realtà relativamente giovane. Nata nel 2015, si è posta l’ambizioso obiettivo di cambiare il delivery. Non facile. Quali sono state le difficoltà nel gestire un’idea così innovativa?

La prima difficoltà è stata di tipo culturale. L’Italia è un paese orgoglioso delle sue tradizioni e delle sue abitudini. Un servizio nuovo e innovativo, basato sullo sviluppo delle nuove tecnologie applicate alla logistica urbana, si trova sempre a dover affrontare l’iniziale scetticismo, specie dei primi clienti privati. La sfida più bella per me è stata far capire e comprendere agli utilizzatori del servizio i tanti vantaggi di affidarsi alla nostra grande delivery community per le consegne urbane. La chiave di volta è come sempre la comunicazione: la nostra capacità di relazionarci con la community e con i clienti ha rappresentato un passo fondamentale per superare i primi ostacoli e aprire le porte alle infinite opportunità che servizi innovativi come il nostro possono apportare al sistema.

Voi gestite un rapporto tra consumatori e utenti prestatori di un servizio. In un certo senso si parla di un nuovo tipo intermediazione facilitata dal medium digitale. In letteratura di settore si fa riferimento alla cosiddetta disintermediazione, per segnalare chi di fatto è autorizzato a farlo e chi no. Come avete risolto questo ostacolo?

Semplicemente noi ci siamo posti come una soluzione innovativa e digitale che potesse mettere in comunicazione chi cerca qualcuno disposto a effettuare una consegna per lui, perché già si sta muovendo nella stessa direzione. Questo movimento in sharing economy è stato strutturato in modo che potesse dare importanti ricadute sia a livello occupazionale, sia a livello ambientale, con l’obiettivo di ottimizzare le spedizioni locali intracittadine. Colui che si affida ad iCarry per le sue spedizioni urbane può vantare un servizio di delivery di qualità ad un costo inferiore rispetto agli operatori logistici tradizionali, ecologico e rispettoso dell’ambiente. La nostra piattaforma è uno strumento tecnologico che permette il best matching: noi puntiamo ad offrire al cliente finale l’opportunità di usufruire di un servizio alternativo per le consegne urbane, che, grazie alle nostre tecnologie applicate, permette di far risparmiare tempo e denaro, offrendo un contributo economico a colui che effettua le spedizioni (i cosiddetti iCarriers). Seguiamo le indicazioni date da norme e leggi rigorosamente, in quanto, come le altre startup italiane, perseguiamo con grande forza e dedizione la nostra iniziativa, sempre con l’obiettivo primario di creare valore. Il compito degli operatori del settore e del legislatore sono di rimuovere ogni possibile ostacolo alla crescita e allo sviluppo, ponendosi come un ponte tra il vecchio e il nuovo. Il nostro è quello di metterci a loro disposizione, al fine di raggiungere questo fine.

Premi, acceleratori, fondi. Secondo te servono davvero o servirebbero, come hanno detto i tuoi colleghi nei precedenti interventi, politiche più mirate e concrete nel supporto alle startup? Quale ricetta consiglieresti di utilizzare?

I premi, gli acceleratori e i fondi sono il primo passo. Per quanto riguarda i passi successivi necessari, possiamo parlare della necessità di apportare delle modifiche sostanziali all’attuale struttura legislativa, rendendo più conveniente e vantaggioso per gli investitori immettere capitale (possibilmente “cash”) nelle startup. A differenza di altri Paesi europei, che hanno già compreso appieno i grandi vantaggi per le loro economie nazionali nel favorire l’innovazione e le nuove idee di business, l’Italia è ancora molto indietro. Questo non vuol dire che la strada finora percorsa sia sbagliata, ma i passi finora fatti sono ancora insufficienti. Fondamentale è proseguire con maggiore forza e celerità la strada virtuosa finora intrapresa. Viviamo in una società competitiva e molto dinamica e, se vogliamo restare al passo con i tempi, dobbiamo seguire modelli vincenti come quello statunitense, il vero paradiso per l’innovazione e l’ecosistema startup. Questo non vuol dire bruciare moneta perché “è una bella idea”, ma vuol dire oliare un meccanismo, che altresì potrebbe bloccarsi più e più volte, mentre magari sta producendo valore.

Alle startup, oltre che i servizi, occorre anche liquidità per poter sostenere delle spese, in primis la forza lavoro dei collaboratori

Riguardo alla figura degli acceleratori e dei fondi, cosi come i premi per le startup, ritengo che il loro modus operandi debba essere rivisto. Acceleratori e incubatori sono essenziali per la crescita delle startup, grazie ai loro percorsi di formazione e di mentorship, che avvengono con esperti e professionisti del settore, i quali supportano gli startupper nel loro percorso imprenditoriale; tuttavia incubatori e acceleratori tendono ad entrare nel capitale delle startup fornendo premi solo in servizi piuttosto che con capitale monetario. Alle startup, oltre che i servizi, occorre anche liquidità per poter sostenere delle spese, in primis la forza lavoro dei collaboratori, senza i quali alcun business può essere portato avanti. Ritengo che la soluzione più idonea, il giusto compromesso possiamo definirlo, sia la politica di fornire sia cash che servizi.

Riguardo la figura dei fondi di investimento, in Italia sono ancora pochi e tendono ad investire solo in progetti con importanti volumi di fatturato, quasi PMI, più che startup. Credo anche qui che il giusto compromesso sia quello di credere in coloro che fanno innovazione, investendo maggiori capitali in progetti meritevoli, con l’obiettivo di creare valore.

Le giungle della burocrazia sono molte. L’innovazione da sempre viene messa all’angolo dalla normativa, che non segue le necessità reali e la domanda del mercato. Secondo te è possibile trovare un equilibrio tra i vecchi assetti di lavoro e i nuovi modelli?

Assolutamente si. Il legislatore ha il compito di agevolare la creazione di nuove figure lavorative, al fine di spronare l’innovazione, supportandola appieno. Le normative devono rappresentare liberalizzazioni controllate, non paletti su un percorso rettilineo. Uno slalom è decisamente più lento da percorrere, rispetto a una pista dritta, di cui invece necessita la crescita di nuove tipologie di business ad alto potenziale. Quindi occorre liberalizzare dove sia posabile e modificare le attuali regolamentazioni, in modo tale che il vecchio e il nuovo possano coesistere senza alcun conflitto, incrementando l’uno il valore dell’altro. Eccessiva burocrazia, diffidenza, paura, sono tutti ingredienti che non spingono la crescita, ma bensì danno come risultato esattamente l’opposto. Bisogna seguire le necessità del mercato che cambia sempre più freneticamente e rispondere ai bisogni della gente in modo innovativo, seguendo le nuove tecnologie, con un occhio attento nell’operare in modo etico, senza mai rinnegare i principi morali dell’onestà, della lungimiranza e della solidarietà.

Il disegno di legge, siamo i primi in Europa, scontenta molti. Tu cosa ne pensi? In che modo vi aiuta, se vi aiuta, questa legge?

La proposta di legge sulla sharing economy è stato un atto coraggioso da parte del nostro governo ed è stato il primo disegno di legge al riguardo in Europa. Si vede che siamo innovatori, anche in questo. Creato con l’obiettivo di regolamentare un mercato dal grande potenziale e in continua crescita, il ddl è ambizioso. Come ogni altra legge che va a regolamentare un tema importante, è stato criticato dagli operatori del settore, nel bene e nel male. Il mio suggerimento è quello di favorire la concertazione tra gli operatori e i firmatari della legge, come in parte è stato fatto da alcuni parlamentari, al fine di trovare, in comune accordo, la migliore soluzione possibile, che rappresenti il giusto compromesso tra i vari interessi in gioco. Gli attori sono molti, Agcom e Antitrust inclusi, e si necessiterà di piena collaborazione da ambo le parti, al fine di avanzare nell’ottica dell’innovazione.

DAVIDE PELLEGRINI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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