In un recente articolo, dal titolo “La sfida del valore condiviso e le trappole della sharing economy”, Andrea Granelli pubblica un’interessante riflessione sul tema dell’economia collaborativa. È un’ottima occasione per aprire un dibattito che, in varie forme, oggi investe tutti gli operatori che lavorano nei percorsi di innovazione. L’articolo pone l’interrogativo se il comportamento dello sharing sia, in contrapposizione con il concetto di dono di Marcel Mauss, da intendersi più come una forma di condivisione (dato che il proprietario resta di fatto in possesso di ciò che condivide).
Affari e valore condiviso
L’idea che, come abbiamo avuto modo di sperimentare, il termine sharing rappresenti attualmente un contenitore di differenti interpretazioni che pongono al centro la società connettiva, prima ancora che collettiva – come direbbe Manuel Castells – sembra piuttosto scontata.
Così come lo è stata, fino a ora, la necessità di dividere chirurgicamente il mondo profit da quello no profit, ancora oggi fatalmente suggestionati dallo scopo dell’azione prima ancora che dalla possibile ricaduta benefica dei suoi effetti (Airbnb è neocapitalismo digitale o un’opportunità per microeconomie di scala? E, soprattutto, in che modo il valore condiviso si esprime in un servizio on demand?). Che il terzo settore da sempre sia connotato in modo molto specifico, nessuno lo nega. Ma in un periodo di crisi e di totale e radicale trasformazione come questo, credo sia più giusto concentrarsi sul ruolo che l’azione imprenditoriale deve avere, piuttosto che sull’esclusiva natura del servizio che offre. Giustamente, nel suo articolo, Granelli cita il famoso testo del 2011 di Porter e Kramer, Creating Shared Value, apparso su Harvard Business Review Italia nel gennaio-febbraio 2011.
Posso assicurarvi che alcune piattaforme si confrontano con il problema della sostenibilità giorno per giorno
Secondo i due teorici «le aziende potrebbero riconciliare affari e società civile se solo ridefinissero il proprio obiettivo nei termini di creazione di “valore condiviso” e rimettessero in contatto il successo di un’azienda con il progresso sociale». Qualcosa di non lontano dalla CSR che, però, appare distante dalla reale fisionomia del fenomeno innescato dalla cultura della sharing economy. Non solo per il fatto che interpretare un’azienda dal punto di vista dei collegamenti infrastrutturali con un territorio non basta a costruire un legame profondo con il territorio sul quale opera; poi, perché non è affatto semplice intercettare una serie di fenomeni che spesso sono mossi da processi di gestazione spontanea come nel caso degli spazi collaborativi, hub o fablab o, ad esempio, tutti quei progetti che propongono in ottica locale e collaborativa prodotti e servizi di nicchia (prendete, ad esempio, il caso dei servizi culturali come TeatroxCasa o CitofonareInterno7).
Fuori dall’idea che dietro l’ideologia del free si nascondano strategie di guadagno (anche se non per tutti), posso assicurarvi che alcune piattaforme si confrontano con il problema della sostenibilità giorno per giorno e, il più delle volte, senza alcuna opportunità di dialogo con le imprese del territorio sul quale operano. È evidente che, per la maggior parte di questi team, il primo proposito sia quello della finalità sociale.
La sharing economy è prima di tutto un fenomeno che ha alla base un manifesto di idee di cambiamento
Se la sensibilità al sociale (visto che si parla ormai quotidianamente di imprese ibride e di b-corp) sta abbattendo il confine stabilito dal fine di lucro, sta anche riconfigurando un intero sistema che stabilisce nuovi parametri: la differenza tra interazioni sociali e relazioni sociali. Nella sessione introduttiva al recente Festival di Ferrara – tra gli altri – ce ne hanno parlato Paolo Venturi e Luigi Corvo, moderati da Alessia Maccaferri. Le interazioni, come nel caso delle piattaforme digitali, possono essere contatti favoriti dal fine utilitaristico del rapporto (un esempio sono proprio i servizi on demand), mentre le relazioni costruiscono valore. Ne parlo con grande trasporto perché, rispetto al dibattito che si è infuocato, e che ancora non riesce ad emanciparsi dalla sua visione economico-aziendale, stiamo finalmente scoprendo che la sharing economy è prima di tutto un fenomeno che ha alla base un manifesto di idee di cambiamento che si esprime per comunità fisiche. Quello che è uscito fuori, in quelle bellissime giornate ferraresi, è l’urgenza da parte delle persone di ritrovarsi in gruppi e avere l’opportunità di sentirsi coinvolti in community attive prima ancora di diluirsi nel network aperto e illimitato della rete. Il sociologo Davide Bennato ha espresso un’idea ben precisa quando ha detto che in una fase storica in cui il contesto delle relazioni si caratterizza come ecosistema in cui prevale la desincronizzazione e la deterritorializzazione (ci si rapporta all’altro in tempo e luoghi diversi, pensate ai social media), il futuro creerà sempre più una netta distinzione tra i network e le community. Distinzione che, tra le altre cose – come dimostrano gli studi sul nostro paese – rafforza pienamente il retaggio culturale che esalta la propensione alla prossimità fisica, al gruppo e alla cooperazione. L’emancipazione dalla visione radicale aziendalista, che per la verità cita anche Andrea Granelli, e la valorizzazione del genius loci al di fuori dalle retoriche coloniali di stampo anglosassone, ci aiutano nel recuperare la ricchezza non solo produttiva, ma di idee e contenuti che possediamo come un tesoro naturale. Ora che anche il marketing si è fatto umanistico (giocando con Kotler), possiamo finalmente concentrarci su alcune importanti caratteristiche dell’economia collaborativa nel nostro Paese.
Le caratteristiche dell’economia collaborativa italiana
1) L’impresa sociale di tipo collaborativo non si lega al territorio, ma da esso nasce e con esso si sviluppa grazie all’interesse manifesto dei suoi soci, che sono espressione stessa del territorio che abitano, vivono e sono interessati a migliorare. Il concetto di “locale” non è affatto una limitazione concettuale del valore di un’impresa, ma può diventare un’opportunità nella misura dell’azione condivisa con infrastrutture, stakeholders, associazioni e comunità con i quali coordinare un’azione di sistema. L’impresa sociale non si misurerà più solo sulla base di indicatori econometrici, ma sul reale capitale sociale, di conoscenze e competenze sviluppare sul territorio.
2) La costruzione di innovazione (che non si misura ex post, ma che ha un suo senso più che manifesto nel compiersi del processo) e la nuova catena del valore fatta di progetti, piattaforme e spazi collaborativi, obbedisce alla volontà di riconfigurare il sistema sociale e culturale prima che all’obiettivo di realizzare un indotto milionario. Se Mark Federman ha coniato il termine publicy per definire la contaminazione tra la sfera pubblica e quella privata, propria di chi opera in rete (una condizione per dire che ormai la convergenza delle due dimensioni ci costringe di fatto all’attenzione verso l’etica sociale), Laura Boella, in Un Mondo Condiviso, scrive che il primo motore della collaborazione è l’empatia, una condizione naturale che avvicina le persone nell’identificarsi l’uno nell’altro e nel condividere la rappresentazione di uno stresso destino. La spinta all’idealità dei gruppi collaborativi giustifica il passaggio dal capitalismo dell’iperconsumo alla partecipazione collettiva alla governance pubblica e alla gestione dei beni comuni. Obiettivo: trovare soluzioni.
3) Il superamento della logica della rottamazione e il riconoscimento del senso del cambiamento. Parlando di neocapitalismo digitale, ad esempio, è un fatto che siano stati intaccati gli interessi di corporazioni e associazioni di categoria che cercano in qualche modo di mantenere delle posizioni, pur disponibili ad aggiornarle tramite un confronto con i nuovi attori. Il punto è che la dialettica, più che interessare il rapporto tra ciò che è vecchio e ciò che è nuovo, dovrebbe essere vista come un complesso dialogo tra gruppi che difendono interessi di gruppo. Da un lato ci sono le associazioni di categoria che, per come vengono rappresentate, difendono il proprio interesse e sono reticenti al cambiamento; dall’altro ci sono i neo-operatori delle grandi corporate che, per come vengono raccontati, difendono gli interessi della nuova imprenditoria digitale; poi, ci sono le community di innovatori che, però, nel costruire il cambiamento rappresentano di fatto un altro gruppo, diverso per obiettivi e modalità, ma chiuso nelle proprie posizioni. Costruire ponti equivale a trovare il giusto equilibrio narrativo per comunicare che l’urgenza di cambiamento non vuol dire necessariamente destituzione forzosa di chi c’era prima.
4) La prossima civiltà sociale, la società partecipe, obbedisce a una finalità curativa. Tornando all’empatia, la malattia del millennio è nella rivelazione di tutto lo scibile senza più alcun contenimento. La storia si è sciolta e, nel flusso che la vuole ormai come un eterno presente in movimento, ha svelato le sue fragilità, i suoi controsensi, obbligando ognuno di noi a subire un incipit narrativo come quello della Grande Crisi Globale, senza soluzioni né sviluppi di sorta. In questo senso, la diffusione della necessità collaborativa, nel suo acquisire un rilievo collettivo, obbliga tutti a credere che un miglioramento sia possibile e ad agire perché accada. L’empatia è la cura. L’intenzionalità, la volontà di assecondare il cambiamento per mezzo di strategia positive, sono gli strumenti. Nei giorni di Ferrara si è svolto un workshop sulla felicità in cui si è parlato di nuovi modelli. Dall’economia circolare («circolare, circolare, non c’è nulla da vedere», come direbbe Bergonzoni) all’economia civile, dal mutualismo alla ricerca della felicità.
5) L’innovazione può fare molta paura. Non siamo in un racconto di Asimov o di Philip Dick. Non c’è quella barriera della finzione a rafforzare il patto tra l’autore e il lettore. È qualcosa che succede realmente e ha delle ripercussioni importanti nella vita di tutti. Se l’idea che abbiamo anche discusso in alcuni workshop è quella dell’agire per cambiare, anche se non si viene capiti, si ripete probabilmente l’annosa quaestio che è alla base dell’alternanza storica delle generazioni. In questo senso, gli innovatori sarebbero le avanguardie, così come ci sono state nella prima metà del Novecento, e la dinamica sarebbe quella del conflitto, della contrapposizione, della rottura degli equilibri e dell’instaurazione di nuovi paradigmi sociali, culturali, ecc. Oggi, invece, possediamo strumenti più efficaci e penetranti per costruire una dialettica rassicurante sul futuro e sull’innovazione. L’obiettivo dell’innovatore non consiste più nella ghettizzazione del suo ruolo, ma nello sforzo di rendere comprensibile quello che fa rispetto a ciò che è stato.
Questi, è chiaro, sono solo alcuni spunti nati dalla grande quantità di idee e confronti di cui è stata teatro Ferrara durante il Festival. Ci sarebbe ancora molto da dire. In questo senso è in preparazione una rivista del FSF con il panorama completo dello scenario che si è configurato.