Il rapporto Svimez quest’anno, come ogni anno da qualche anno a questa parte, ha raso al suolo la debole resistenza di chi si occupa di comunicazione e si sforza di migliorare il sentiment sul Mezzogiorno. Dopo #catastroSvimez sarà ancora più complicato spiegare, a chi ha moneta da investire, che investirla nel Mezzogiorno può rappresentare un’opportunità, piuttosto che un rischio.
La politica industriale per il Mezzogiorno della prima Repubblica era fondata su tre pilastri: il primo, il potenziamento infrastrutturale con autostrade, ferrovie e aeroporti, il secondo, l’erogazione di incentivi per la realizzazione di grandi siti produttivi e il terzo pilastro, una pioggia di agevolazioni alle imprese di minore dimensione, con l’obiettivo di sostenere investimenti e crescita e generare posti di lavoro a un costo medio di cinquanta milioni di lire/cinquantamila euro per nuovo occupato.
Se avessero aggiunto l’istruzione, il controllo del territorio e l’efficienza della macchina amministrativa, cioè quelle cose che non si possono comprare ma si devono fare, oggi il Mezzogiorno sarebbe la Silicon Valley.
Sui risultati di questa politica si può discutere, e lo Svimez aiuta a comprenderne meglio i limiti, ma se adottiamo #catastroSvimez come unico punto di vista rischiamo di buttare via il bambino insieme all’acqua sporca.
Dopo #catastroSvimez ho assistito a uno scollamento della comunicazione sul Mezzogiorno fra i media tradizionali e i social network: i primi, che parlano a grandi masse di lettori e ascoltatori, hanno concentrato l’attenzione sulla “desertificazione industriale”, un’espressione odiosa che quando è rimbalzata sui social è stata accolta spesso con disappunto e comunque ha provocato la reazione di quelli che si riconoscono nel bambino e non nell’acqua sporca: quelli de #ilsudsiamonoi.
Nel mio lavoro spesso devo convincere imprese e investitori del nord a portare business e soldi al sud e i motivi per convincerli sono di solito: soldi alle imprese, rendimenti agli investitori, basso costo del lavoro, eccellente capitale umano, grande capacità di execution, alta qualità della vita. Ma imprese e investitori leggono sui giornali di desertificazione industriale, immondizia per le strade, terra dei fuochi, mafia e camorra e molti miei colleghi del nord addirittura si meravigliano che a me piaccia lavorare al sud, “con quello che si sente!”. Eppure a luglio ero a Milano in #WCap con un gruppo di startupper del nord, che avevano dei progetti interessanti, e mi sono scoperto a pensare “ah, ragazzi, se foste a Napoli vi farei prendere il volo”.
Quindi, per non tirarla a lungo, chiudo questo sfogo con una short list delle oasi nel deserto e invito ancora e sempre imprenditori e investitori a venire al sud, a fare impresa e a investire. Mi aiuto con le elaborazioni di SRM/IntesaSanpaolo e le analisi del suo capo economista Massimo Deandreis per la parte macro, e racconto la mia personale esperienza regione per regione per la parte startup/innovazione (mi scuso se manco qualcosa, spesso ignoro o dimentico):
1. Le filiere delle “4 A”: Aeronautica, Automotive, Alimentare, Abbigliamento, solo in Campania quasi centomila addetti, quattro miliardi di PIL e oltre un miliardo di export;
2. I distretti: caffè, pasta, olio, conserve, calzature e abbigliamento, sono tra i primi trenta distretti in Italia per crescita e redditività;
3. PIL manifatturiero, ventotto miliardi quello del Mezzogiorno, quasi due volte quello della Grecia;
4. Sicilia: due poli di eccellenza a Catania e a Palermo, nell’Etna valley l’incubatore di Telecom Italia e nel capoluogo un’eccellenza come Ugo Parodi e la sua Mosaicoon;
5. Calabria, il polo di Arcavacata (CS), il dinamismo di Reggio Calabria e gente come Francesco Tassone e la sua Personal Factory;
6. Puglia, un mare di piccole aziende nate grazie a iniziative come Principi Attivi e Valore Assoluto, che in questi anni hanno lavorato sul prodotto e il modello di business e faranno presto parlare di sé;
7. Basilicata, di cui si è parlato di recente su queste colonne, senza citare il fatto che ad oggi è l’unica regione meridionale che abbia varato un fondo di venture capital gestito dalla regione, attraverso Sviluppo Basilicata, che chiuderà i primi investimenti a settembre, guarda caso anche in aziende del nord che si trasferiscono al Sud;
8. Campania, casa mia, l’unica che ad oggi possa vantare un’assessora alle startup e all’innovazione, peraltro con a storia e un’esperienza all’altezza del suo incarico; una regione dove c’è veramente un magma incandescente di iniziative di stimolo alla creazione d’impresa: l’animazione di NAStartup e Best Practices, il matchmaking di Start’n’Up, l’accelerazione di Tech Hub, Giffoni Innovation Hub, Vulcanicamente, 012 Factory e Hub, tra poco Digital Magics con Talent Garden, l’incubazione a Città della Scienza, la finanza con i business angel, Vertis e il Banco di Napoli;
9. Abruzzo, la mia seconda casa, la meno meridionale di tutte, ma pur sempre parte del Mezzogiorno, dove una finanziaria regionale ha realizzato in un anno 20 investimenti in startup innovative, aggregando capitali pubblici, fondi di investimento e business angel, e ha aperto un incubatore nella stazione di Pescara, che accoglierà imprese abruzzesi e non, meridionali e non. Un brillante esempio di quello che si può fare nel Mezzogiorno con le risorse, gli uomini e le idee. In Italia nessun altro lo ha fatto, pubblico o privato che sia, eppure i nomi italiani che si leggono nelle classifiche internazionali sono altri. Non meridionali. Ma #ilsudsiamonoi.
GIOVANNI DE CARO*
*campano, innovation manager IntesaSanpaolo, Atlante Ventures Mezzogiorno