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Siamo già nel futuro dell’informazione, e sopravvivere non sarà facile

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Qualche giorno fa era il “compleanno” dell’ormai quinquennale rubrica della Gazzetta dello Sport che si chiama “Notizie che non lo erano”, che nacque perché ci parve che in una particolare settimana fossero circolate molte notizie che appunto si rivelarono poi false: e poi provammo a farla ancora e ci rendemmo conto che quella frequenza non era straordinaria.

Al di là della sua successiva popolarità e durata, per me quello fu un passaggio importante nella rivelazione della quota di informazioni false e inaffidabili che leggiamo sui giornali, abituati a pensare siano vere. Oggi, cinque anni dopo, quell’abitudine io l’ho abbastanza persa: anzi temo ormai di averne una contraria, che mi induce a diffidenze pregiudiziali sulla maggior parte di quello che trovo sui media italiani, con le eccezioni di alcuni giornali o autori che nel tempo ho imparato a conoscere come più credibili.

Questo progressivo calo di fiducia nei mezzi di informazione mi pare si stia estendendo ulteriormente, e che siamo in una sua nuova accelerazione. Al di là dei luoghi comuni che sono sempre circolati sul cinismo ingannevole di giornali e giornalisti – film come “L’asso nella manica” e “La signora di venerdì” saranno presto vecchi di un secolo – col tempo siamo però rimasti inclini a pensare che ci sia una corrispondenza tra quello che leggiamo e la realtà: ovvero che se c’è scritto così, è così; salvo smentite.

Una volta dicevamo “l’ha detto il telegiornale”. Poi però abbiamo cominciato a dubitare anche del telegiornale. Adesso ho l’impressione che questa perdita di credibilità abbia avuto nuove intensità: almeno nel ristretto e non universale ambito che frequento e da cui ricevo feedback e impressioni, in rete soprattutto.

Negli ultimi giorni sono state molto commentate le maldestre coperture della strage di Aurora, con notizie inventate e strafalcioni ed esagerazioni allarmistiche. È stata discussa l’enfasi superficiale con cui i giornali hanno dato spazio al “caso” dei falsi followers di Beppe Grillo.

C’è stata la storia del documento congiunto Spagna-Francia-Italia: che per quanto è vero che sono stati gli spagnoli ad aver combinato un guaio, è vero anche che quella notizia falsa è andata con gran titoli sull’apertura delle homepage italiane e non su quelle francesi e spagnole. C’è stata la falsa notizia sui tagli alla spesa di Hollande, che ha fatto il giro di Facebook ed è arrivata sul sito di Repubblica, dove un giornalista è stato molto contestato per averla sventatamente ripresa.

E poi le dimissioni di Nicole Minetti date per immediate e sparite. Sono quotidiane le segnalazioni in rete, più o meno indignate, di errori, trascuratezze, inciampi dei giornali (James Holmes che è diventato John Holmes nell’apertura di Corriere.it, l’Unità che ha celebrato con gallery fotografica l’anniversario di Enrico Berlinguer ma era invece il compleanno di Luigi).

La formula “è giallo” per coprire una notizia falsa data come vera è diventata un tormentone comico, in rete.

Bisognerebbe parlare appunto anche della violenza capricciosa che alcuni di questi errori generano, a volte. Abbiamo assistito a falsità riguardanti temi delicatissimi e vicende politiche importanti non si sono viste tante proteste quante ne sono girate per lo sbaglio di Repubblica sul nome dell’autore di Batman. E il giornalista che ha messo sul suo blog la bufala Hollande è stato perseguitato nei commenti fuor di misura.

E nei rari casi in cui un giornale corregge un articolo sbagliato, viene allora attaccato per aver corretto senza chiedere scusa. Ma questi sono atteggiamenti che stanno dentro fenomeni più generali, e che danno delle indicazioni della situazione: così come i fallimenti della politica generano il ricorso ai forconi e ai qualunquismi superficiali, e il successo di demagoghi e populisti, lo stesso avviene per i fallimenti dell’informazione: che attirano sfogatoi e messaggi complottisti (“le cose che non vi dicono”, “il potere occulta la verità”). In entrambi i casi, le cose fatte male e le inadeguatezze umane in ruoli importanti diffondono aggressive semplificazioni.

Invece la cosa più interessante da capire, è se stia cambiando il rapporto che abbiamo con la verità dell’informazione, o come cambierà. Io credo, se ne parla da tanto, che non ci sia un’informazione del futuro o un giornalismo del futuro, formule usate spesso nei convegni o in certi editoriali. Credo che ci siamo già dentro, all’informazione del futuro, e che sia fatta esattamente di questo caos di informazioni che vengono dalle fonti più diverse e con le affidabilità più diverse. Facciamo molta fatica ad abituarci culturalmente all’idea che le cose che leggiamo sui media tradizionali e “importanti” non siano vere, facciamo persino fatica a non trovare vere quelle che leggiamo su un blog qualsiasi.

Tendiamo a pensare da una parte che se c’è scritto è vero, e dall’altra ad andare dietro a ogni suggerimento che invece sia tutto falso e ci stiano ingannando. Ma siamo ancora quelli che “l’ha detto il telegiornale”: l’informazione credibile è un servizio che nelle nostre società diamo comunque per scontato, con i suoi limiti. Un po’ come la sanità pubblica, o la giustizia, o la scuola: le critichiamo, sappiamo che possono succedere guai e sbagli, ma diamo per scontato che esistano e funzionino, nella norma.

Ecco, per capire cosa sia l’informazione oggi e cosa sarà sempre più in futuro, io credo dobbiamo cominciare a immaginare di essere in uno di quei paesi – ce ne sono, eccome – in cui non ci sono un sistema scolastico, ospedaliero o di amministrazione della giustizia diffusi e progrediti, garantiti. In cui se ti ammali, hai grossi rischi di morire; in cui imparare a leggere o imparare di più è raro e difficile; in cui se ricevi un danno o un sopruso probabilmente non avrai giustizia.

Ecco, il nostro rapporto con l’informazione diventerà probabilmente così, forse lo è già: che non possiamo contare sul fatto che le cose che leggiamo e sentiamo siano vere, che raccontino accuratamente il mondo e la realtà. Alcune lo saranno, altre no, altre ancora un po’ sì e un po’ no. Possiamo decidere che non ci importa, che diventiamo destinatari di un groviglio di notizie e informazioni e dati che disegna la nostra idea del mondo, e non importa quanto si avvicini alla verità. Sarà un disastro per il funzionamento della democrazia, ma non vi pare in fatti che il funzionamento della democrazia già zoppichi?

Oppure possiamo avere caro che quel groviglio vi si avvicini, alla verità, e allora saremo costretti – ripeto, già lo siamo – a crearci una grande competenza e senso d’orientamento tra tutte le notizie che ci riceviamo, per costruire una comprensione delle cose che più si approssimi a come le cose sono davvero.

Da lettori diventeremo, con uno sforzo difficile, parte della costruzione dell’informazione affidabile. Se vogliamo riprendere l’esempio di prima sui servizi pubblici, sarà come la copertura sanitaria americana pre-Obama (e un po’ anche post): ci sarà chi ha i mezzi per garantirsi e individuare un’informazione di qualità, a pagamento del proprio impegno o anche dei propri soldi, e chi no. Sarà difficile, frustrante, e continueremo lo stesso a credere a cose sbagliate e ad arrabbiarci quando ce ne accorgeremo. Ma se ci importa che avvenga meno spesso possibile, ci conviene cominciare ad entrare in questo faticoso ordine di idee e adottare una sgradevole e obbligata diffidenza. Una serena e costruttiva diffidenza, magari.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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