Se ci pensate bene, sempre di più, le nostre città saranno i luoghi dove conviveranno assieme la tradizionale “materialità dell’essere” e immense, infinite, non definibili, quantità di dati.
Meglio, già oggi aspetti rilevanti della nostra vita di ogni giorno, sono rappresentate o si narrano attraverso i dati.
La diffusione combinata (nexus of forces) dell’uso dei device mobili, del social networking, di Internet of Things, sta sostituendo -o trasformando- i dialoghi in infinite quantità di bit. E tutto ciò riguarda ogni ambito della nostra vita e dell’organizzazione sociale, Istituzioni comprese.
Il cloud computing, sempre di più, non sarà il luogo della conservazione dei dati “puri”, non contaminati, né contaminabili, ma il luogo del meticciarsi dei dati.
La Smart City è il luogo dove i dati di diverse provenienze, mescolati tra di loro, genereranno valore sociale ed economico.
Ecco una definizione di Smart City.
Fantasie futuristiche?
I principali istituti di ricerca (McKinsey in primis) affermano che la competizione, sempre di più, si sta spostando dall’uso delle materie prime tradizionali, all’uso e alla gestione dei dati. I dati sono già oggi una risorsa.
L’intera economia globale è già oggi interessata intensamente da questi processi. Il mondo della distribuzione commerciale, della medicina, delle comunicazioni, solo per fare degli esempi, tutto è permeato dalla competizione per l’uso dei dati.
In fin dei conti le nostre polemiche -spesso insulse- sulla privacy nei social nertwork non attengono forse al possesso e all’uso dei dati e delle informazioni che con grande dovizia rilasciamo ovunque?
Più la vita del genere umano, inevitabilmente, sarà digitalizzata, più aumenterà la quantità di dati/bit prodotta, più aumenterà la competizione per il possesso e per l’uso dei dati.
Questo processo pone, in forme inedite, la ridefinizione degli elementi fondanti delle democrazie.
C’é chi teorizza, in modo aberrante, la fine della democrazia rappresentativa sostituita da un indistinto popolo del web. In questo caso si confonde la crisi dei “corpi intermedi” di una società e, in Italia la crisi della politica, con una sorta di assemblearismo perenne e non regolato che si esprimerebbe attraverso i social network.
La verità è che i sistemi democratici non hanno ancora trovato il modo di “abitare” in modo organizzato il mondo immateriale. Basti pensare alle polemiche di questi giorni sull’uso di Twitter.
Esso, il mondo immateriale, è abitato e vissuto dall’economia e dalla società civile; non è vissuto correttamente dalle Istituzioni democratiche.
Spesso leggiamo, sbagliando, questi processi con occhi nazionali; non siamo abituati a considerarli come fenomeni globali.
Siamo abituati a considerare il web, in quanto tale, come una forma di democrazia assoluta, ma non è sempre così. In fin dei conti il web è costituito da piattaforme concepite da esseri umani, per rispondere ad esigenze di esseri umani.
Un vecchio detto ci ricordava che “sapere” è “potere”. È sempre stato vero. Oggi è ancora di più vero.
Molta parte della conoscenza e del sapere si struttura e si forma in rete, assume forme reticolari, senza gerarchie precise. Il caso eclatante è Wikipedia, la più consultata enciclopedia al mondo.
Non sfuggirà a nessuno che le gerarchie nella definizione della conoscenza e del sapere e l’attribuzione della patente di autorevolezza su Internet avviene attraverso processi profondamente diversi rispetto a quelli tradizionali. In realtà non ha e non avrà regole.
Chi governa questi processi? Chi definisce le ontologie attraverso le quali i dati vengono ordinati? Chi stabilisce quali dati sono importanti e quali no? Soprattutto, chi filtra qualche “sestilione” di byte? Rispondere a questi interrogativi è oggi un imperativo.
Ecco il motivo di fondo per il quale non mi accontento di rivendicare genericamente gli “open data”; peggio ancora “open data” rivolto solo ai dati delle Pubbliche Amministrazioni.
Nè mi accontento di rivendicare genericamente dati in formato open in nome della trasparenza. Naturalmente non nego la necessità che “dosi” maggiori di trasparenza debbano permeare sempre di più la vita del nostro Paese. Figurarsi.
Ma, ciò che rivendico sono pensieri lunghi, strategia.
La rivendicazione di trasparenza non è una strategia per liberare i dati. Anzi, spesso potrebbe generare risultati diversi da quelli voluti.
Lawrence Lessing nel suo articolo “Contro la trasparenza” denuncia come i dati liberati potrebbero favorire l’affermarsi di una cultura accusatoria, spesso fondata su letture arbitrarie di dati. E in Italia, ciò avviene un pò troppo spesso.
David Weinberger parla apertamente di “data smog” per indicare come, l’affluire di quantità infinite di dati, senza obiettivi precisi generi effetti opposti a quelli che si prefiggono coloro che, giustamente, rivendicano più open.
Ho già affermato che le Città sono, saranno, sempre di più un crocevia di dati provenienti dalle fonti più disparate, pubbliche e private.
In questo crogiolo di sapere e di conoscenza “virtualizzati”, i soggetti “privati” si muovono da tempo usando i dati. Hanno già formato le loro figure professionali, le loro linee di business, stanno definendo i loro interessi.
Il pubblico è assente da questa competizione. Legifica e norma per liberare i dati (v. ad es. Agenda Digitale), ma non li usa, non li sa usare. E, in tempi di crisi della finanza pubblicaquesta che ho denunciato è una carenza gravissima.
Assumere una strategia implica allora:
– passare da una generica rivendicazione di dati open, all’ individuare obiettivi di riforma del Paese. Obiettivi economici e sociali. I soggetti che individueranno obiettivi potranno essere molteplici: politici, Istituzionali, associazioni di city user, movimenti civili, soggetti economici.
– ricordarsi sempre che il dato open non è una finalità, bensì uno strumento, una opportunità per raggiungere obiettivi economici e sociali. Quali obiettivi raggiungere è il frutto del conflitto, della mediazione, dei processi concertativi tra i diversi soggetti dei quali ho parlato più sopra.
– ricordarsi che il soggetto che deve cedere dati (sovranità) non è solo il “pubblico”. Probabilmente il mondo privato tiene segregati molti più dati “di interesse pubblico” rispetto ad una Pubblica Amministrazione.
– una città smart è un luogo dove questi processi generano valore comune. La trasparenza è UNO di questi valori, ma non IL valore.
– assumere conseguentemente la coscienza che se la rivendicazione di dati “open by default” è fondamentale nell’Agenda Digitale di un Paese, questa non andrà ridotta, come purtroppo è avvenuto, esclusivamente al pubblico, ma anche al mondo privato.
Se non si vuole che la rivendicazione di dati open si trasformi in una nuova “guerra di religione” sarà necessario che anche il mondo privato intraveda vantaggi di sviluppo economico e di crescita.
Ecco allora che, se queste poche cose venissero adottate culturalmente, il movimento pe gli open data non sarebbe più quella minoranza che purtroppo è oggi, ma diventerebbe una grande necessità per il nostro Paese.