Di preoccupante, rispetto a quanto emerso nello scandalo della sorveglianza di massa della National Security Agency, non ci sono solo i contenuti diffusi al mondo da Edward Snowden. C’è anche il modo in cui il mondo ha reagito alla diffusione di quei contenuti.
Non si tratta solamente di quanto già visto all’opera per Bradley Manning, la presunta fonte delle rivelazioni di WikiLeaks, né per Julian Assange. Come allora ci sono state le minacce di morte e i tentativi di criminalizzazione, sia della fonte che di chi l’ha pubblicata. Ci si è concentrati in troppi casi sulla storia, gli affetti, la psicologia e i motivi del whistleblower (divenuto «talpa», anche se la maggioranza degli americani la pensa altrimenti) più che su ciò che ci ha voluto dire.
E si è troppo spesso scambiato il caso NSA con il «caso Snowden», trasformando una questione di rilevanza planetaria – è giusto che l’intelligence degli Stati Uniti e di altri paesi controlli in maniera così pervasiva le nostre comunicazioni telefoniche e via Internet? – in una sorta di spy story 2.0 in cui c’è uno «spione» che cerca rifugio, e gli 007 che gli danno la caccia con ogni mezzo. Compreso costringere a terra un aereo presidenziale, quello di Evo Morales, per dodici ore sulla base di un semplice sospetto.
Tutto già visto dopo il Cablegate, la pubblicazione di 250 mila documenti riservati della diplomazia statunitense da parte di WikiLeaks, e con il tentativo del fondatore Julian Assange di sfuggire all’estradizione in Svezia per le stravaganti accuse di molestie sessuali che lo hanno costretto a riparare nell’ambasciata dell’Ecuador, a Londra, in cui è rinchiuso da oltre un anno.
Non solo non abbiamo imparato nulla: ora dobbiamo anche registrare l’indifferenza delle vittime. Cioè i comuni cittadini. Non i pochi ragionevolmente sospettati di terrorismo, come vorrebbe far credere l’amministrazione Obama. Ma milioni di innocenti, intercettati in massa e senza che nemmeno ne siano a conoscenza.
I dati sono impietosi. Nonostante le rivelazioni di Snowden, infatti, il 58% degli statunitensi interpellati in un sondaggio ABC News/Washington Post dice di appoggiare i programmi di sorveglianza dell’NSA. I contrari sono indietro di quasi 20 punti (39%). Ci si potrebbe consolare con la formulazione della domanda, che parla di «indagini specifiche» da parte dell’intelligence «per provare a identificare possibili minacce terroristiche». Come ha scritto recentemente il New York Times in un’inchiesta indipendente, entrambe le affermazioni sono false: la sorveglianza dell’intelligence USA è l’esatto contrario.
O ancora, con il 65% d’accordo con una discussione pubblica della tematica al Congresso. Ma sarebbe fuorviante.
Due sondaggi del Pew Research Center, infatti, confermano lo scarso interesse per l’argomento da parte degli americani. Un primo, condotto a pochi giorni dallo scoppio dello scandalo, ci mostra come il 56% degli interpellati ritenga che intercettare milioni di telefonate sia un modo accettabile di condurre la lotta al terrorismo. Che per il 62% viene prima della tutela della privacy individuale. Un secondo, pubblicato una settimana più tardi, aggiunge che per il 54% – senza distinzione tra Repubblicani e Democratici – il governo dovrebbe perseguire Snowden.
Altri dati complicano lo scenario (la maggioranza – 49 contro 44% – crede che la fuga di notizie riservate riguardi fatti di pubblico interesse; il 52% che il monitoraggio delle mail non sia giustificato, contro il 45% che pensa il contrario). E la più recente rilevazione disponibile, della Quinnipiac University, lascia sperare che qualcosa stia faticosamente cambiando nell’opinione pubblica: il 45% degli interpellati ritiene che il governo si sia spinto troppo in là nella restrizione delle libertà civili nel nome della lotta al terrorismo (ma il 40% sta con l’NSA), quando nel 2010 i critici erano il 20% in meno. Tuttavia il punto è che l’indignazione collettiva, la cifra degli anni delle ‘primavere arabe’, di Occupy, degli Indignados e della giustizia sommaria online di Anoymous, sembra non applicarsi al dominio della sorveglianza delle comunicazioni.
L’Italia non fa eccezione, se si pensa alla freddezza e al disinteresse con cui è stato accolto l’atteggiamento, morbidissimo, del governo Letta nei confronti di Barack Obama quando si è scoperto che l’NSA spiava l’ambasciata italiana a Washington. E, soprattutto, con cui si è fatto passare il messaggio che, tutto sommato, sia bastata un’audizione al Copasir dell’ambasciatore Giampiero Massolo per fugare ogni dubbio di legittimità delle operazioni dell’intelligence USA.
Peccato che il presidente e il segretario dell’istituzione ne forniscano resoconti completamente opposti, lasciando dunque inalterata la richiesta di chiarimenti che dovrebbe provenire anche dall’opinione pubblica. Che invece sembra più intenta a minimizzare, o ad alzare il sopracciglio – Ma come, lo scoprite ora? Si sapeva! – che tentare di capire. Impresa che non necessariamente comporta il districarsi tra i dettagli tecnici e politici di un caso che può stabilire un prima e un dopo nella storia del rapporto tra pubblico e privato, e dunque nelle vite quotidiane di ognuno di noi: assumere che tutto sia registrato, dice il guru della sicurezza informatica Bruce Schneier, è infatti – ahinoi – un buon modo di approcciare la questione.
Risultato? Dovremmo chiederci come uscirne, e non lo stiamo facendo. Un problema reso anche più grave dal fatto che, anche a farsi le domande, le risposte sono tutt’altro che scontate. Dovremmo chiederci come mai la protesta organizzata da svariati attivisti e promossa da siti frequentatissimi come Reddit, 4chan e BoingBoing il 4 luglio non abbia trovato alcun interesse né nei media, che in passato non hanno perso l’occasione per ribadire che «il web si ribella», né negli utenti. Anche qui, ne ignoriamo il motivo. Dovremmo fidarci delle risposte dei nostri governi. Ma non possiamo, dato che più passa il tempo più li troviamo – come quello francese, secondo Le Monde – implicati in operazioni analoghe a quelle che denunciano.
Ci sono poi altri pensieri spiacevoli, che giungono dalla somma dell’esperienza attuale con quelle del recente passato. Anche nell’era della rete che tutto dovrebbe cambiare, sembrano dirci gli scandali sollevati da WikiLeaks e da Snowden, il mondo può trovarsi di fronte a scoop che rivelano segreti nocivi all’interesse collettivo e lasciarseli scorrere sulla pelle come niente fosse. Anche nell’era del digitale che tutti connette e informa, possiamo sapere e al contempo ignorare. E se perfino dopo gli scandali non dovesse cambiare nulla, come sembra, possiamo sempre ricorrere al cinismo, alla rassegnazione o alla rabbia virale che perpetuamente – ma per il tempo di una fiammata – alimentano così tanti commenti nelle reti sociali.
Non che si debba rimpiangere l’indignazione, sia chiaro. Ma la curiosità, la volontà di sapere, quella sì. Perché il dato storico è che nel momento in cui la nostra privacy non è mai stata così in pericolo, noi abbiamo cessato di curarcene. È il sogno degli Zuckerberg e delle intelligence di tutto il mondo, ma l’incubo di chi ha a cuore che il web resti un luogo dove è possibile tutelare (almeno) le stesse libertà civili di cui godiamo offline. E del resto, pensando al futuro della governance della rete, con quale credibilità le democrazie occidentali potranno opporsi, dopo il Datagate, alla sorveglianza e al controllo dei regimi autoritari? Quale voce potranno levare in difesa dei loro utenti colossi privati che recano nel motto aziendale utopie libertarie e nella prassi quotidiana canali di collaborazione con l’intelligence la cui opportunità è tutta da verificare?
Sono pensieri scomodi, ma che vanno sollevati ora. Prima che, per determinismo tecnologico o pura e semplice pigrizia, si consideri già persa la battaglia decisiva per definire le fattezze dell’ecosistema online che verrà. Al momento possiamo, e dobbiamo, ancora combatterla.