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Societing summer school ; Così l’agricoltura può creare i suoi “hub”

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Nei giorni scorsi ho avuto la fortuna di poter partecipare da facilitatore alla quarta edizione della Societing Summer School. L’accademia mediterranea del Societing è promossa da numerosi valenti studiosi dell’economia e della società e conta grandi nomi nel suo direttivo, cito tra gli altri Michel Bauwens, Bernard Cova, John Grant, Bill Emmot, oltre ai direttori Adam Ardvisson e Alex Giordano.

Nel quadro delle sua attività di promozione e studio dell’innovazione sociale e della “socializzazione dei processi produttivi”, Societing ha dedicato la Summer School di quest’anno al tema della ruralità, con un focus specifico sull’agricoltura e dei territori. A incarnare questo interesse, prima ancora della Summer School, dalla fertile base di societing era nata l’iniziativa RuralHub, che è stata correttamente posta al centro delle attività.

Al di là della visione ancora poco chiara, RuralHub si incarna già in un luogo fisico, tangibile, immerso in un territorio con una sua specificità. L’importanza di questa fisicità, si è potuta toccare con mano all’Incartata, un vecchio casale (nella foto sopra) adiacente al Parco Regionale dei Monti Picentini, a due passi dall’Univerisità di Salerno. Il tutto si è svolto in questo luogo che non esiterei a definire incantevole, dotato di diversi ettari di noccioleto e di oliveto, oltre che di un incredibile orto, compreso nel territorio del comune di Calvanico: un piccolo paesino fatto di un Bar, un belvedere, un negozietto di alimentari e qualche antica casa, pieno di gente sorridente e ospitale. Un tipico paese rurale del centro-sud Italia.

Il RuralHub Envisioning Workshop

La visione dietro RuralHub è, come detto, ancora in forte divenire. Il mio intervento alla Summer School di questi giorni è stato imperniato proprio sul tenere un workshop – che ho disegnato e facilitato personalmente – che aveva l’obiettivo di chiarire il contesto degli stakeholder e generare una prima idea di mission e servizi. In particolare usando un approccio di design thinking e traendo ispirazione da alcuni classici innovation games (molti egregiamente descritti nel portale Gamestorming) ho costruito un workshop composto da tre sessioni di due ore circa, sviluppato su tre giorni.

Il primo giorno abbiamo rotto il ghiaccio grazie alle sempreverdi Talk To Me Bubbles ideate da Jay Cousins (ormai un punto di forza di quasi tutti gli eventi di co-creazione che organizzo).

In seguito, in tre momenti da cinque minuti di speed date, coppie di partecipanti generate casualmente durante 30 secondi di musica e danza energizzante, sono stati incoraggiati a scambiare tra di loro una visione del RuralHub, rispondendo alla domanda “Cosa significa per te RuralHub?”. Queste visioni sono state poi clusterizzate, attraverso un classico processo di metaplan in una mappa mentale.

Durante il secondo giorno, ci siamo dedicati a identificare e classificare gli stakeholders – già precedentemente mappati in una preliminare stakeholder map – in quattro quadranti sulla base del potenziale impatto e del potenziale interesse dello stakeholder per l’iniziativa. Avendo individuato circa 19 stakeholders, ci siamo poi focalizzati su quelli che erano presenti nel quadrante di massimo interesse e massimo impatto (sette) e siamo andati avanti nell’analisi redigendo una motivation matrix, strumento classico di service design dall’utilità estrema. Obiettivo della motivation matrix è quello di identificare motivazioni intrinseche e estrinseche dei player modellando i flussi who-gives-to-whom (chi da cosa a chi).

Il terzo giorno, il nostro workshop è durato un po’ meno del previsto – per motivi di compressione dell’ agenda – e ci siamo focalizzati nel costruire una lista di prodotti e servizi che il RuralHub dovrebbe fornire all’ecosistema di stakeholder e utenti, usando la metafora dell’albero, “Prune the Product Tree”.

Come approccio generale abbiamo sempre lavorato in gruppi da 6/7 partecipanti, e poi integrato i contributi. Voglio anche citare il lavoro che in parallelo ha fatto Nicola Cerantola con il suo Ecobusiness Model Canvas (altra interessante variazione del BMC di Alex Osterwalder, come il mio Platform Design Canvas, attualmente in fase di revisione!) che ha raccolto molti degli output delle sessioni.

NOTA: Tutti i documenti prodotti nel corso delle sessioni sono a disposizione del pubblico qui su questa cartella condivisa di Google Drive. C’è anche un documento di note che è possibile utilizzare per dare feedback. Vi incoraggiamo a farlo.

Il significato del RuralHub

Personalmente credo che l’iniziativa del RuralHub, pure se ancora in nuce, contenga una grande quantità di significato. Una tendenza globale molto ben definita vede infatti la nascita di hub fisici, punti di incontro dove si condividono infrastrutture di produzione, avere sempre maggiore importanza nel facilitare l’emergere di nuove figure, e nuove soluzioni creative. Il pensiero può facilmente andare da una parte ad esempio ai Fablab (format più volte citato durante i workshop), dall’altra agli incubatori per Startup.

Dal Fablab il RuralHub vuole mutuare l’idea del network che replica localmente infrastrutture di produzione simili, per favorire la replicazione e la condivisione delle pratiche e della conoscenza e la creazione di artefatti simili e open source per fovorire una prospettiva di collaborazione tra i nodi della rete.

In un certo senso, interessanti paralleli sono da evidenziare pure col mondo Techshop: la catena statunitense nata per dare al microbusiness dei piccoli artigiani, dei creatori e designers accesso a strumenti di produzione da piccola manifattura, favorendone la crescita e le fasi di sperimentazione per innovare e potenzialmente identificare prospettive di crescita e stabilizzazione che possono avvenire dentro il Techshop (in grado di sopportare produzioni commerciali in piccola scala).

Dall’altra parte il RuralHub vuole mutuare qualcosa anche dal mondo degli incubatori di startup: l’attenzione alla scena imprenditoriale, alla facilitazione e all’incubazione di impresa e imprenditorialità, l’accesso al capitale di seed stage e il coaching. In questo senso, è da notare come il mondo stesso degli incubatori sia sempre più attento a aspetti di aderenza alle comunità e alla dimensione locale, come dimostrano anche grandi progetti come Wayra (di Telefonica) o Working Capital di Telecom Italia, con la sua rete distribuita di incubatori.

Enormi prospettive

Le significative prospettive di sviluppo che si cominciano a intravedere nel mondo dell’agrobusiness e del local food certamente rappresentano un ulteriore incentivo a creare nuovi format e nuovi laboratori. Una critica sempre maggiore investe infatti i player quali i produttori industriali o la GDO. Questi ultimi promuovono un approccio totalizzante, che riversa la stragrande maggioranza dei guadagni sulla logistica e sulla distribuzione più che sulla produzione dei beni alimentari, e accumula valore intangibile nei brands.

Consumatori sempre più attenti all’impatto e alla sostenibilità rivolgono oggi l’attenzione alla produzione a kilometro zero, e diversi player stanno cercando nuova distruption nel mondo del cibo.

Tuttavia, non solo il cibo e la produzione agricola evocano grandi prospettive: materie prime ecologiche e di derivazione vegetale come la canapa o il bambù rappresentano ogni giorno di più una potenziale nuova ondata di sviluppo nel mondo dei materiali: dalle plastiche da stampa 3D ai materiali per l’isolamento e la costruzione.

La ruralità è senz’altro una questione chiave per l’Italia e per il mondo, specie se alziamo l’asticella della complessità a cui cerchiamo di guardare e ci interroghiamo, ad esempio, sul crescente problema dell’accesso al cibo e all’energia in un pianeta la cui popolazione aumenta a dismisura, spingendoci verso probabili conflitti sulle risorse, non solo energetiche ma anche alimentari. Il fenomeno del Land Grabbing, che vede i paesi più importanti (la Cina tra i protagonisti, ma non l’unica) acquisire più o meno direttamente il controllo della produzione di cibo in alcune zone dell’Africa è solo primo avvertimento.

Pur sperando in una prospettiva positiva – la risoluzione pacifica dei conflitti per le risorse – la scienza delle piante che ci sfamerà necessiterà sempre di nuovi testbeds e micro laboratori dove testare l’utilizzo delle tecnologie più avanzate, letteralmente in campo, studiandone l’adozione integrata nell’ambiente e nelle comunità. Se invece crediamo alla prospettiva della crisi, la Low Road, come la definisce il sempre chiaro Bauwens, allora la familiarità e la vicinanza con la terra e la coltivazione e l’essere parte di una comunità locale e rurale saranno un fondamentale strumento di resilienza.

In ultima analisi, il destino delle grandi città (le vere espressioni dell’economia dell’ultimo secolo, emblemi del sistema sovraproduttivo) è oggi a forte dubbio di sostenibilità. Nessuna città al mondo è un sistema sostenibile: tutte generano enormi esternalità negative sul resto dei territori (consumo di risorse, inquinamento, discariche, etc..). A parte l’interessante caso di Seoul, che vuole diventare la prima Sharing City, pochissime oggi sono le municipalità che si stanno interrogando su questa trasformazione. Con una crescente prospettiva di avere una jobless recovery, l’appeal del grande agglomerato urbano, non più in grado di fornire il lavoro, grande attrattore, è destinato a calare e le alternative rurali torneranno di grande attualità.

Dunque la ruralità è oggi parte integrante della post-globalizzazione (o g-località): prospettiva in ogni caso futuribile, potenziale enorme opportunità di sviluppo e business se vista con un occhio al lungo periodo. Molti giovani Italiani sembrano averlo capito e, credo non a caso, l’ISTAT segnala che quest’anno abbiamo il 44% in più di lauree in Agaria in Italia.

Non è forse un caso dunque che oggi molte iniziative di innovazione sociale e rurale, che cercano di identificare nuovi modelli di sviluppo più sostenibile da un punto di vista ambientale, umano e sociale vengano dal sud di questo devastato paese. Pensiamo anche a Matera e al suo percorso verso la candidatura a capitale Europea della cultura 2019, luogo fertile di condivisione e socializzazione dove nascono progetti come unMonastery, promosso da Edgeryders.

Questo paese sembra di nuovo, malgrado la sua classe politica immobile, voler tornare al centro di una ondata di innovazione che potrebbe veder tornare il mediterraneo al suo antico ruolo di culla di una nuova civiltà, più umana e allo stesso tempo più adatta a misurarsi col futuro.

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Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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