Spotify, il progetto sul monopolio dei podcast

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Quando Spotify ha accettato di pagare Joe Rogan più di 100 milioni di dollari per rendere il suo show esclusivo, ha inviato un chiaro messaggio: l’azienda svedese vuole avere il monopolio sui podcast. Quell’acquisto era stato preceduto dall’acquisizione di The Ringer, nel 2020. Più recentemente, la società ha acquistato il popolare podcast Heavyweight in esclusiva, due anni dopo gli accordi presi con il proprietario dello show Gimlet. Queste mosse stanno preoccupandoalcuni osservatori del settore che pensano che Spotify stia mettendo a soqquadro il mondo dei podcast. Per capire perché, bisogna scavare a fondo nella storia del web.

Spotify, il progetto sul monopolio dei podcast

In una serie di articoli che criticano Spotify, Matt Stoller, direttore della ricerca all’American Economic Liberties Project, ha paragonato l’attuale ecosistema dei podcast al web tra il 2000 e il 2006.

Il web, infatti, era decisamente un mercato aperto ed era una cosa positiva. Se si costruiva un sito web, lo si poteva finanziare autonomamente attraverso la pubblicità. Le piattaforme giganti non controllavano la distribuzione né la produzione né la pubblicità. Tra il 2004 e il 2014, Google e Facebook hanno messo fine a questo, spiega, e “il flusso di denaro pubblicitario” è stato reindirizzato dagli editori ai giganti della tecnologia.

Il podcasting è ancora un po’ come il vecchio web. Utilizza uno standard aperto chiamato RSS, la creatività e la diversità fioriscono e c’è poca pubblicità mirata. La virtù principale di questo formato aperto, ha spiegato Richard Tee, professore associato alla Surrey Business School, è che è intrinsecamente più democratico.

A questo proposito, il professor Tee ha osservato: “Nel modello centralizzato o nel modello proprietario è una singola parte che decide quali sono le barriere e questo è intrinsecamente meno democratico – e ha aggiunto –.

E come ‘piattaforma’ per la distribuzione di podcast, RSS è anche unico. La maggior parte delle piattaforme, come YouTube o Facebook, sono proprietarie. C’è essenzialmente una singola azienda che governa la piattaforma. Nel podcasting è molto diverso”.

Il modello YouTube

Con il trascorrere del tempo, tuttavia, è poi arrivato Spotify. Matt Stollar ha rivelato che l’azienda sta cercando di fare la stessa presa di potere di Google e Facebook: prendere il controllo della pubblicità e del processo di distribuzione per controllare e monetizzare l’intero ecosistema dei podcast attraverso la pubblicità mirata con un processo noto come inserimento di annunci in streaming. Qualora Spotify riuscisse nel suo intento, questa “rivoluzione” distruggerebbe l’attuale sistema aperto, perché l’unico modo possibile per ottenere ascoltatori – e denaro – sarebbe attraverso Spotify.

In questo senso, YouTube è un ottimo metro di paragone. Secondo quanto riferito da Kerri Hoffman, amministratore delegato di PRX, una media company no-profit specializzata in giornalismo audio e storytelling, è possibile osservare quanto segue: “Se vuoi mettere online un video nel mondo e non lo metti su YouTube, non avrai molto pubblico. Questo non significa che YouTube sia l’unico posto in cui andare, ma significa che è il posto dominante. Non abbiamo questo nel podcasting, in parte a causa della Apple, per quella che possiamo chiamare ‘innovazione passiva’. E, in quel vuoto, ha permesso ad altri di formarsi”.

Spotify e podcast: settore a rischio?

Alla luce delle informazioni segnalate, quindi, quanto dovrebbe essere preoccupata l’industria dei podcast? Una cosa da tenere a mente è che molte di queste acquisizioni non provengono dalla comunità indipendente, ha sottolineato Hoffman. Le acquisizioni generalmente favoriscono chi ha già successo (e non favoriscono tipicamente le donne e le persone di colore, ha precisato). Questo non è affatto rappresentativo dell’industria dei podcast, che in realtà è in crescita. “Le acquisizioni di contenuti sono aziende abbastanza grandi come Gimlet e Wondery“, ha detto Hoffman. “Non sta mettendo un freno alla comunità indipendente, perché questo non è rappresentativo della comunità indipendente”.

Anche concentrarsi sulle acquisizioni può tendere ad essere un po’ una falsa pista, ha ammesso il professor Tee. A causa delle dimensioni dell’ecosistema del podcasting, una compagnia può acquisire solo un certo numero di spettacoli e quel numero rappresenta solo un piccolo sottoinsieme dell’intero settore.

Un modo migliore di porre la questione, secondo Tee, è scoprire fino a che punto Spotify può coesistere con l’ecosistema basato sugli RSS: “Penso che sia una questione aperta fino a che punto queste soluzioni proprietarie sostituiranno completamente l’ecosistema aperto. Storicamente il web non è stato sostituito da Facebook, ma chiaramente c’è una tendenza in cui gli elementi non web sono cresciuti significativamente”.

I cicli chiusi

Ciò che è indubbiamente preoccupante, tuttavia, sono gli accordi di esclusività di Spotify. Questi creano un “ciclo chiuso”, ha ribadito Hoffman, che è pericoloso per la salute del settore: “Ciò che rende il podcasting un ecosistema sano, e diverso da dove il consolidamento è avvenuto in altre industrie, è il fatto che ci sono molti punti di accesso, la gente può ascoltare su una moltitudine di dispositivi e piattaforme. È più simile all’internet pubblico che a qualsiasi altro tipo di media, e in questo modo, è un vero gioco imprenditoriale“.

I cicli chiusi, mescolati con una situazione in cui lo stakeholder principale è un inserzionista, creano una corsa al ribasso, che è terribile per il consumatore e per la creatività più in generale: “Quando l’inserzionista è lo stakeholder, come si fa ad estrarre valore dal grande denaro che si sta spendendo? Beh, si va verso un contenuto provato e vero, che è per lo più, ma non del tutto, un vero crimine e un contenuto di celebrità. E così si riduce la creatività”.

Se Spotify intende dominare l’industria, allora l’industria è nei guai. Il CEO di PRX, infatti, ha dichiarato: “Se Spotify può trasformare gli ascoltatori di musica in ascoltatori di parole, e Spotify non possiede tutti i contenuti, ma solo alcuni, è una buona cosa. Ma se iniziano a creare un circuito chiuso, dove puoi accedere solo agli spettacoli che sono ospitati sulla piattaforma, e vieni tagliato fuori da quelle entrate se non accetti di essere in esclusiva, questo è davvero un problema“.

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Scritto da Ilaria Minucci

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