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Stage e esperienze all’estero aumentano del 90 per cento le chances di trovare un lavoro: è dimostrato

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“Terminata l’università me andrò all’estero. Solo lì posso trovare un lavoro”. Marco è in quinta elementare ma ha già le idee chiare. Da qualche anno è il mantra che professori e genitori sono costretti a registrare tra i giovani.

I dati Istat di questi giorni potrebbero, alla prima lettura, smentirli.

Il tasso di disoccupazione è sceso all’11,9% dal 12,7% del 2014. Era da sette anni che non si registrava un calo.

Eppure, se andiamo a vedere con la lente d’ingrandimento i numeri diffusi dall’istituto di statistica, scopriamo che l’Italia non è un Paese per i giovani: certo, per la prima volta dal 2007 la disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni scende di due punti percentuali e per la fascia tra i 25 e i 34 anni registra un -0,8% ma per i primi resta al 40,3% e per i secondi al 17,8%.

Peggio di noi solo Grecia e Spagna. Troppo alta.

Soprattutto se raffrontiamo questi dati con la fascia over 35: quelli senza lavoro tra i 35 e i 49 anni sono solo l’8,9%. Un dato che scende al 6,9% se prendiamo in considerazione i 50-64 anni. Gli strumenti sulla carta non mancano ma i posti di lavoro creati per i giovani restano pochi. Le aziende preferiscono assumere personale esperto. Lo sa bene Francesco che dopo 20 anni di lavoro in un’azienda siderurgica del Nord è stato contattato da una multinazionale per un contratto nuovo: “Hanno chiamato me, non un giovane perché conosco già il lavoro. L’unica mia pecca è la mancata conoscenza della lingua inglese”, ha raccontato.

Ma perché l’Italia non è un Paese per i giovani?

Di là delle riforme di qualsiasi governo c’è un problema: la mobilità sociale è bloccata.

Secondo il recente rapporto 2016 presentato da “Alma Diploma” a influenzare le scelte dei giovani è anche e soprattutto il titolo di studio dei genitori. L’86% dei diplomati, provenienti da famiglie in cui almeno un genitore è laureato, dopo la scuola secondaria superiore si iscrive all’università (e a un anno risulta ancora iscritto); non solo, ma chi ha i genitori laureati ha anche una maggior probabilità di iscriversi ad un ateneo estero (il 4%, contro l’1% di chi ha genitori con al più la scuola dell’obbligo).

La quota di chi prosegue gli studi universitari dopo la conquista del titolo scende al 64% tra i giovani con genitori in possesso di un diploma e al 43% (la metà rispetto ai figli di laureati!) tra quanti hanno padre e madre con al più una licenzia media inferiore.

Credits: www.annapiuzzi.it

Lo ha capito bene l’economista Marco Magnani, responsabile del progetto di ricerca “Italy 2030” alla Kennedy School of Governement della Harvad University che nel suo “Sette anni di vacche sobrie” (Utet) scrive: “La mobilità consente un uso più efficace delle risorse, determinante per la crescita economica di un Paese. Solo quando i talenti e le capacità individuali sono pienamente valorizzati la società cresce e prospera”.

La mobilità, chiaramente, non è l’unica risposta alla domanda che ci poniamo. C’è un altro punto da considerare che emerge dalla ricerca di AlmaDiploma: il 23% dei diplomati tecnici e professionali dichiara di utilizzare in maniera elevata le competenze acquisite nel corso degli studi. Tuttavia, rispettivamente il 47% e 48% di loro ammette di utilizzarle in modo ridotto e il 29% di loro afferma di non utilizzarle per niente.

L’importanza di fare esperienze all’estero

Un problema che riguarda anche chi si laurea. Lo ha spiegato per il sito dei tipi de “Il Mulino” il docente Edmondo Lombardi Vallauri: “Oltre ai numeri conta la sostanza delle esperienze. Io sono bersaglio continuo dei resoconti di miei studenti e studentesse (per lo più laureati in Lettere e in Lingue, quindi settore occupazionalmente disagiato) che dopo anni di tentativi in Italia, coronati solo dal pantano dell’incertezza sul versante dell’insegnamento o dalla tortura dello sfruttamento in lavoretti precari sul versante delle aziende, trovano il coraggio, cioè insomma sono costretti, a lasciare questo Paese. Poche settimane dopo il loro arrivo – diciamo – in Germania, hanno trovato lavoro. Non uno qualsiasi: quello che volevano e per cui hanno studiato. Vengono assunti perché sono preparati”. In Italia non accade questo “magico incontro” .

Infine, resta il problema dei contratti. Seppure sia ancora presto per valutare appieno gli effetti del Jobs Act, i risultati che presenta “Alma Diploma” ci permettono di fare un’osservazione:

la zona grigia della precarietà e persino dell’illegalità continua a contagiare il mercato del lavoro giovanile.

Tra i diplomati ad un anno dal titolo che lavorano esclusivamente e a tempo pieno, le cifre sono ripartite così:

Il 30% dei tecnici lavora con contratti a tempo determinato e altre forme di lavoro non standard; altrettanti con contratti formativi.

Il lavoro stabile riguarda 28 tecnici su cento, in particolare 24 impegnati in contratti a tempo indeterminato, la restante quota in attività autonome.

– Il 7% non ha un contratto regolare.– Il 33% dei professionali lavora con contratti formativi,– Il 27% ha contratti a tempo determinato e altre forme di lavoro non standard.– Un 22% conta poi su contratti stabili, in particolare a tempo indeterminato (19%).– L’8% non ha un contratto regolare.

Non è compito dei giornalisti fornire soluzioni ma le osservazioni di “Alma Diploma” ancora una volta aiutano a capire quali potrebbero essere le strade da percorrere: secondo la ricerca, infatti, “svolgere esperienze lavorative e internazionali durante gli studi accresce le chance occupazionali dei diplomati” così le esperienze di stage “svolte dopo il conseguimento del titolo giocano un ruolo determinante: accrescono infatti addirittura del 90% la probabilità di lavorare già ad un anno dal conseguimento del titolo”.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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