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Startup, cosa ci manca per colmare lo spread con Berlino

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Il secondo decreto sviluppo, che contiene le norme a favore dell’ecosistema startup italiano, è stato da pochi giorni pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Si è parlato molto dell’argomento, poichè si tratta del riconoscimento governativo di un processo di crescita dell’ecosistema avvenuto con grande rapidità soprattutto nell’ultimo anno. È evidente che sia ancora tanta la strada da percorrere, sia dal punto di vista del supporto normativo, che, soprattutto, per dimostrare che si tratta di un ecosistema sostenibile nel lungo termine.

Questo vale a dire il vero per tutta la scena startup a livello europeo, dove si stanno stabilizzando, in un quadro economico di crisi generalizzata, dei centri (hub) ad alta concentrazione di startup, in particolare Londra e Berlino. Un articolo recente dell’Economist analizza i motivi per cui l’Europa è ancora lontana dal raggiungimento di una crescita sostenibile nel settore hi-tech.

Nonostante i dubbi e le incertezze ampiamente fondati, è però innegabile che Londra e Berlino stanno diventando i simboli di una speranza che anche nel vecchio continente si possano creare, come negli Stati Uniti e in Israele, terreni fertili per la proliferazione di startup di successo.

Negli ultimi mesi ho avuto la fortuna di conoscere meglio la scena berlinese, essendo entrata con la mia startup nell’acceleratore Startupbootcamp, e ho capito un po’ meglio cosa si nasconde dietro all’hype che la contraddistingue. Anche qui a Berlino lo sviluppo è avvenuto, come in Italia, piuttosto recentemente e con ritmi sorprendenti. Solo l’anno scorso sono nate più di 500 startups. Durante il popolare incontro Friday At Six, Silvia Foglia di Twago mi raccontava che tre anni fa, quando si è trasferita nella capitale tedesca, le startup si contavano sulle dita, e solo nell’ultimo anno il fenomeno è letteralmente esploso e i meetup sono ormai quotidiani e sovraffollati.

Dopo la caduta del muro, Berlino ha vissuto in uno stato di cambiamento perpetuo, a cui ha contribuito l’immigrazione massiccia di artisti provenienti da tutto il mondo, attratti da un costo della vita estremamente basso e da una serie di incentivi governativi verso il settore culturale. La crescente fama di città giovane, artisticamente molto viva e dove si può vivere con poco ha, soprattutto negli ultimi anni, portato a Berlino un numero crescente di startupper. È stato poi il successo di Soundcloud ad attirare anche l’attenzione della stampa internazionale e ad accendere i riflettori sulla scena berlinese. Insieme alle startup si stanno anche progressivamente trasferendo nella capitale sia VC, come Earlybird (che prima aveva la sede ad Amburgo), che acceleratori, come Startupbootcamp.

La narrazione mediatica ha enfatizzato e mitizzato il bar St. Oberholz come centro focale della scena berlinese, uno spazio di co-working improvvisato che ha fino ad ora permesso l’incontro e lo scambio di idee tra le varie startup. In realtà il St. Oberholz è simbolo di una generale facilità di aggregazione che Belino permette. Prima di tutto la concentrazione geografica delle startup offre numerose occasioni di incontro, a differenza della decentrazione della scena italiana che rende problematica la comunicazione face-to-face degli startupper. Inoltre, la presenza di diversi spazi urbani dismessi, come magazzini e centrali elettriche, riadattati a uffici e spazi di co-working e offerti a prezzi accettabili ha ulteriormente favorito l’amalgama della scena berlinese.

Ci sono altri fattori che hanno sostenuto la crescita dell’ecosistema? Secondo Ciaran O’Leary, partner a Earlybird, l’attitudine al cambiamento e la mancanza di strutture societarie rigide permettono di piantare semi di creatività in un terreno estremamente fertile e recettivo. Una controcultura artistica e un atteggiamento “punk” generalizzato attirano inoltre giovani da tutto il mondo e si insinuano, a mano a mano, anche nel DNA delle startup. Infatti, come i bar, i locali e perfino i ristoranti a Berlino sono profondamente ma autenticamente hipster, così lo sono anche le startup.

Basta vedere quelle che si sono affermate nell’ultimo paio d’anni, spesso sostenute da campagne di marketing virali di impatto. È il caso di Gidsy, marketplace per chi vuole offrire o usufruire di attività di vario tipo a livello locale. Team giovane e trendy, ufficio da copertina di design magazine, un sostenitore del calibro di Ashton Kutcher e una naturale propensione a comunicare la propria storia. C’è poi EyeEM, competitore diretto di Instagram ma dal design molto più accattivante e targettizzato a chi fa dell’estetica una ragione di vita. Il team di EyeEM sa come si fa un prodotto bello, social e viral, e a Berlino quelli della scena startup ne vanno pazzi. Amen è invece un’applicazione che permette di esprimere opinioni, e lo fa in modo divertente e di impatto visivo. Tanto che parte della loro campagna promozionale prevedeva l’affissione di poster con alcune delle opinioni più divertenti generate dai propri utenti, che si integravano bene con i muri graffitati berlinesi. La più recente startup hipster è probabilmente Klash (che vanta la presenza di un italiano, Alessandro Petrucciani), applicazione per lanciare sfide tra amici, la cui versione beta è stata preceduta da diverse apparizioni del team a eventi startup e in giro per la città vestiti con mankini e costumi da cigno. Altro piccolo dettaglio: è difficile trovare un tedesco all’interno dei team delle startup più hot di Berlino.

Dunque costo della vita basso, spazi di co-working in abbondanza, un ambiente internazionale e una profonda apertura alla creatività sono alcuni degli ingredienti alla base dell’ecosistema berlinese, che ha però fino ad ora ottenuto scarso supporto governativo. Mentre alcuni si lamentano di questa apparente miopia del sistema pubblico tedesco altri, come lo stesso O’Leary, ritengono che la mancanza di un intervento dall’alto, in favore di una deregolamentazione, abbia invece contribuito alla crescita e sostenibilità della scena startup.

Quali sono allora le ombre che incombono sull’ecosistema berlinese? Nonostante la crescente attenzione da parte di VC internazionali, e la presenza di investitori early stage, mancano ancora fondi di capitale consistenti in grado di supportare la fase di crescita delle startup. Inoltre, sostiene Linsey Fryatt di Venture Village, gli investitori tedeschi sono ancora troppo conservatori, e preferiscono puntare su “cloni” di prodotti internazionali di successo anziché valorizzare idee originali e “disruptive”. C’è poi il fatto che, mentre alcune startup sono già in fase avanzata con milioni di utenti e ricavi, come Soundcloud, Zalando e Wooga, non c’è ancora un numero soddisfacente di exit che dimostrino il potenziale successo dell’ecosistema. “Molte startup qui a Berlino sono brillanti” continua la Fryatt, “ma manca ancora la comprensione di come far crescere un business a livello globale”.

Infine, la hype mediatica rischia di generare una bolla speculativa e creare aspettative troppo alte da raggiungere, così da deludere il mercato. La Fryatt non sembra preoccupata: “Certo ora c’è molta hype, ma alla hype seguono anche i soldi”. Lo stesso O’Leary non appare pessimista: “Cicli di hype e delusione sono parte del gioco, ma lo slancio e la consistenza della scena mi rendono molto sicuro del fatto che sia sostenibile nel lungo termine. Ci vorrà solo tempo, e duro lavoro”.

Mi viene da pensare che questa frase possa valere anche per l’Italia. Gli ingredienti giusti li abbiamo anche noi, anche se sono di diversa natura. Forse davvero quello che manca ancora è la creazione di un hub che concentri le startup, come è successo a Berlino, e una storia di successo del calibro di Soundcloud.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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