Sarà Brexit. Gli appelli di David Cameron non sono serviti. Il primo ministro, alla fine, si scotta con una fiamma che ha contribuito ad alimentare. I britannici (51,9% contro 48,1%) hanno deciso di lasciare l’Ue, nonostante le corpose concessioni ottenute durante i negoziati di febbraio. Le ultime di una lunga serie. Non si può parlare, però, di divorzio. Perché quello tra Bruxelles e Londra non è mai stato un matrimonio. Al più una convivenza, difficile e con poco sentimento.
Winston Churchill
Da Winston Churchill a Boris Johnson
Winston Churchill parlava di “Stati uniti d’Europa” già nel 1946. Londra, dopo la prima richiesta di adesione alla Cee, dovette incassare il veto di Charles De Gaulle e dieci anni di attesa.
Nel 1975, durante il referendum che avrebbe sancito la permanenza della Gran Bretagna nella Comunità europea, Margaret Thatcher abbandonò gli austeri tailleur per indossare un maglioncino con stampate le bandiere dei Paesi aderenti. Salvo opporsi, negli anni a venire, a una maggiore integrazione. David Cameron si è battuto contro la Brexit, ma solo dopo averla cavalcata. Quello tra Gran Bretagna e Unione europea è un rapporto di amore e odio che percorre la storia, divide il Paese e spacca i partiti. È accaduto anche questa volta. Con il primo ministro accanto ai predecessori conservatore (John Major) e laburisti (Gordon Brown e Tony Blair), contro il Tory Boris Johnson.
Margaret Thatcher
Margaret Thatcher, un “sì” e tre “no”
Londra fa parte della Comunità europea da due anni e mezzo quando chiama i britannici a votare sulla permanenza.
Il quadro politico è ben diverso, senza Ukip e con la maggioranza di Laburisti e Conservatori dalla stessa parte. Tra di loro c’è anche la leader dei Tory Margaret Thatcher. Che, a differenza di Cameron, poteva parlare a nome del partito: “I conservatori dicono sì all’Europa”.
Lo farà anche il 67,20% dei votanti. Eppure la Lady di ferro, nonostante il maglioncino multibandiera, non si poteva certo dire un’euro-entusiasta. Come si noterà poi. Nel 1979, nel corso di un Consiglio europeo, Thatcher chiede una rimodulazione dei contributi che la Gran Bretagna versa all’Europa. Londra dà più di quanto riceve. La frase che sintetizza quella richiesta passerà alla storia: “Vogliamo indietro i nostri soldi”. Obiettivo raggiunto.
Londra ottiene il cosiddetto “british rebate”, uno sconto sui suoi contributi secondo il quale gli altri Paesi membri si impegnano a rimborsare (in base al proprio peso) i due terzi del contributo netto britannico.
Un meccanismo, rivisto e corretto, in vigore ancora oggi. Undici anni dopo, i toni sono ancora più forti. L’allora presidente della Commissione, il francese Jacques Delors, spinge per una maggiore integrazione politica. Con tre proposte che riceveranno in risposta tre monosillabi.
“Mr Delors ha affermato che il Parlamento europeo sarà il corpo democratico della Comunità, vuole che la Commissione sia l’esecutivo e il Consiglio europeo il Senato. No. No. No“
Le firme del trattato di Maastricht
Major e i “bastardi” contro Maastricht
Il successore di Margaret Thatcher è un altro conservatore, John Major. È sua la firma sul Trattato di Maastricht. Il parlamento britannico lo fa penare per più di un anno prima della ratifica. Una battaglia durante la quale Major ha messo sul banco la leadership del partito e lo stesso governo. Su Maastricht arriva a chiedere la fiducia, con il suo stesso partito spaccato. Non certo una situazione morbida. Supera la prova. Le telecamere lo sorprendono mentre chiama “bastardi” tre dei suoi ministri.
Eppure, anche in quell’occasione, la Gran Bretagna era riuscita a spuntare una condizione di privilegio: l’opt-out per la moneta comune. L’Europa concede a Londra la possibilità di non aderire all’euro e continuare a utilizzare la sterlina. Una conquista importante, spesso dimenticata o data per scontata.Con il tempo le idee non sono cambiate. Nella campagna anti-Brexit, Major è stato uno dei più convinti sostenitori della permanenza nell’Ue. Ha definito l’uscita “un errore” e una battaglia tra “economia ed emozione”.
Altro paladino del Brexin è stato Tony Blair, premier laburista e successore di Major. Nel 2004 annuncia un referendum, anche se più blando, per accogliere la Costituzione europea. Non si andrà mai alle urne, anche per cautela: erano già arrivati i no di Francia e Danimarca.
David Cameron
David Cameron: urne e minacce
A leggere le parole di David Cameron nell’immediata vigilia del referendum, sembrava che il primo ministro fosse il più entusiasta degli europeisti. La Brexit sarebbe “un grave errore”, “una scelta irreversibile”, “un salto nel buio”. Eppure è stato proprio lui a promettere il referendum e a utilizzarlo come leva di consenso in vista delle urne.
Il malcontento nei confronti di Bruxelles trova dimostrazione plastica nell’ascesa dello Ukip. La formazione guidata da Nigel Farage ottiene il 23% nelle elezioni locali del 2013 e il 27,5% nelle europee dell’anno successivo. Cameron decide di mettere l’Europa sul tavolo.
Alla fine di maggio 2014, a pochi giorni dal successo di Farage, il premier minaccia l’uscita della Gran Bretagna se Jean-Claude Juncker fosse diventato presidente della Commissione europea. Minaccia, questa volta, inascoltata.
A ottobre un altro scontro. La Commissione cambia i parametri per il calcolo del Prodotto interno lordo e, di conseguenza, la fetta di contributi che ogni singolo Paese deve a Bruxelles. Alcuni (Francia e Germania) ricevono uno sconto. Altri un rialzo. I più penalizzati sono Italia (in debito di 340 milioni), Olanda (di 642 milioni) e soprattutto Regno Unito. Londra deve all’Europa 2,1 miliardi, al netto del “rebate”. Risposta: “Noi non paghiamo”. Pagheranno. Ma Cameron spunta una condizione: spalmare l’importo in due rate. E soprattutto posticipare la prima tranche a settembre 2015. Data non casuale: permette al primo ministro di scavalcare le elezioni ed eliminare dall’agenda quel debito tanto inviso ai britannici. Il cancelliere dello Scacchiere George Osborne parla di “successo”. Successo bissato dalle urne. I conservatori, a sorpresa, ottengono la maggioranza assoluta dei seggi e il 36,9% dei voti. Cameron tiene i laburisti a distanza (al 30,4%) e prosciuga lo Ukip, che indietreggia al 12,6%.
Uno dei punti dei Tory riguardava proprio la Brexit: in caso di vittoria, Cameron promette di indire un referendum per l’uscita dall’Ue. Vince. E non può più tirarsi indietro.
La scheda del referendum
Cosa esce dal negoziato di febbraio
La Brexit, a questo punto, da leva di consenso diventa arma di negoziazione. E i risultati si vedono. Il 19 febbraio 2016, Cameron ottiene buona parte delle concessioni richieste all’Ue. Entrerebbero in vigore solo se Londra decidesse di restare in Europa.
Governance economica. Cameron si prende solo il buono dell’Europa. O perlomeno quello che buono è per Londra. L’Unione riconosce la pari dignità di euro e sterlina. Le banche britanniche si tirano fuori, una volta per tutte, dal progetto di una unione bancaria europea. Ma, allo stesso tempo, si assicurano di non avere barriere e ostacoli che le penalizzerebbero rispetto agli istituti della zona euro. E ancora: “Le misure di emergenza e di crisi destinate a salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro non comporteranno responsabilità di bilancio per gli Stati membri la cui moneta non è l’euro”. Tradotto: se ci saranno nuovi casi Grecia, è un problema vostro.
Sovranità. “Il Regno Unito non è vincolato a prendere parte a un’ulteriore integrazione politica dell’Unione europea”. Cameron strappa all’Ue la traduzione formale del “no, no, no” di Margaret Thatcher. Nei prossimi trattati, per la prima volta dal 1957, ci sarà una deroga al principio dell’ever closer Union (cioè quella tendenza a una integrazione sempre maggiore). Regola che, si legge nel documento approvato al termine del negoziato, “non si applica al Regno Unito”. Amen. È il tarlo dell’Europa a due velocità. Altro punto: se il 55% dei parlamenti nazionali volesse bloccare una legge europea potrà farlo. Il Consiglio sarebbe obbligato a discutere la questione, “interrompendo l’esame del progetto”. Non è un potere di veto ma il lasciapassare formale all’ostruzionismo dei singoli Paesi.
Libera circolazione dei cittadini. La barriera all’immigrazione sbandierata da Cameron e sulla quale hanno puntato i fautori della Brexit non ha in realtà nulla a che fare con barconi e diritti d’asilo. Il Regno Unito ha ottenuto un vincolo all’arrivo di cittadini comunitari. Il principio guida è questo: merci e capitali devono essere più liberi possibile, le persone no. Il primo ministro aveva chiesto la possibilità di rimpatriare entro sei mesi chi non avesse trovato lavoro. È stata l’unica resistenza. Per il resto, l’imbarazzo europeo viaggia sul filo dell’equilibrismo verbale: “Sebbene la libera circolazione dei lavoratori implichi l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata su nazionalità, impiego, retribuzione, tale diritto può essere soggetto a limitazioni”. Grazie a questo preambolo, il Regno Unito ottiene il cosiddetto “freno di emergenza”. Per 7 anni, i cittadini comunitari che decidano di trasferirsi nel Paese, avranno un accesso graduale al welfare. Serviranno 4 anni prima di avere servizi pari a quelli di un cittadino britannico.
Competitività. Londra ottiene l’impegno scritto a “rafforzare il mercato interno”, attraverso la riduzione dei “costi amministrativi e di conformità” e l’abrogazione della “legislazione superflua” In due parole: meno burocrazia, soprattutto per le Pmi.
Vincitori e vinti dopo il referendum
Alla fine del negoziato, Cameron esulta, battezzando il Regno Unito come quello che è sempre stato: “Ho negoziato un accordo per dare alla Gran Bretagna uno statuto speciale nell’Ue”. Poche ore dopo, il primo ministro fissa la data del referendum. “Adesso posso chiedere di restare nell’Ue”.Un appello che non è servito. Cameron ha provato a fare il funambolo, nel tentativo di trovare un equilibrio tra urne e negoziazione. Il voto gli ha dato ragione la prima volta e torto la seconda. Ma, se c’è una grande sconfitta, è l’Europa. A febbraio ha ceduto un pezzo di sovranità pur di convincere Londra a restare. Quelle concessioni non ci sono più: evaporano con il referendum. Ma, mentre il Regno Unito se ne va, la dimostrazione di debolezza resta.
PAOLO FIORE