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Tecnologia a scuola: la mia vita da (ri) animatore digitale

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Piero Vaglioni insegna inglese nell’Istituto comprensivo “Mossi”, a Primavalle, nella periferia nord-ovest di Roma. Lo incontro su via Tiburtina perché voglio fargli qualche domanda su che cosa vuol dire essere un animatore digitale. «Rianimatore digitale semmai» mi corregge scherzando. «In che senso?», gli dico. «Posso essere sincero? All’inizio questa definizione mi ha fatto un po’ ridere, conoscendo il tessuto della scuola italiana. Più che un animatore ci vorrebbe un rianimatore, un defibrillatore digitale. E questo vuol dire che o l’anima potenziale c’è e sta morendo, oppure non c’è per nulla e va creata».

Svecchiare la scuola con il digitale

Facciamo però un passo indietro. Lo scorso anno il MIUR ha incoraggiato le scuole italiane a individuare una o più figure, a seconda delle esigenze, scelte fra gli stessi docenti col compito di occuparsi della formazione dei colleghi.

Prevista dal Piano Nazionale Scuole Digitale, dovrebbe favorire l’avvicinamento dei migranti e naufraghi digitali alle nuove tecnologie, promuovere progetti di cui sono protagonisti anche gli studenti, in pratica svecchiare il settore educativo con gli ultimi strumenti che l’informatica offre.

Una buona parte dei maestri pretendono ancora il sussidiario, o poco ci manca

Questo sulla carta. Ma com’è andato davvero questo primo anno, questa fase di avvio alla digitalizzazione della scuola italiana? «È partito tutto all’inizio dello scorso novembre. Il Ministero ha chiesto di individuare una persona fra i docenti, assicurando uno stanziamento di mille euro per i primi dodici mesi, che avrebbero dovuto finanziare le attività digitali della scuola. Questa cifra, però, io non l’ho mai vista». «E la formazione?». «Neppure.

Né io ho potuto curare quella dei miei colleghi, né tanto meno ho potuto usufruirne io. Anche gli animatori digitali devono essere preparati, ma da novembre a oggi non ho visto che slittamenti. E poi c’è un altro problema». «Quale problema?». «Fare scuola digitale non significa solo buttare via libri cartacei e fare apparire magicamente dei kindle. Vuol dire anche aggiornare le meccaniche e prima di tutto il pensiero dell’insegnante, per metterlo in sintonia con quello dei ragazzi. Oggi quasi tutti gli studenti sono nativi digitali, soprattutto i più piccoli, e occorre quindi indirizzali verso l’interfaccia digitale migliore che li guidi all’apprendimento. Immagina invece che una buona parte dei maestri pretendono ancora il sussidiario o poco ci manca, essendo spaventatissimi al pensiero di usare un iPad o anche solo un pc».

Troppe scuole ferme a Windows ’98

Io e Piero passeggiamo vicino gli Studios cinematografici di via Tiburtina, ci fermiamo accanto all’entrata del McDonald’s. Lui mette una mano in tasca e tira fuori il cellulare. «Sai cos’è il BYOD?» mi chiede. «Sì, ne ho sentito parlare. È l’acronimo di una pratica americana». «Esatto. Letteralmente sta per “Bring your own device”, cioè “porta il tuo dispositivo”. Già alla fine degli anni ’90, venne proposto ai dipendenti americani di portare i propri computer o altri strumenti personali sul posto di lavoro, per risparmiare ma non solo. In Italia questa proposta sta partendo ora, con quasi vent’anni di ritardo, quando doveva essere la prima cosa a cui pensare». «Come reagirebbero gli studenti a una proposta simile?». 
«In realtà hanno già reagito, e pure molto bene. Qualche mese fa sono entrato in una quarta elementare, per fare una ricognizione dei computer giurassici che avevano in dotazione, e ho tirato fuori il telefono dalla tasca come sto facendo ora con te. Alla domanda «Vorreste studiare col vostro iPad o col vostro telefono?», tutti hanno risposto entusiasticamente, al contrario del docente che era in classe». «Cioè?». «Sembrava appena uscito da un film di Dario Argento. Era atterrito, disorientato. Si preferisce lavorare con computer molto vecchi – ho visto tantissimi Windows ’98 – piuttosto che sfruttare altre potenzialità. Stesso discorso per gli animatori. Si preferisce che abbiano poco e niente, e pretendere che da quel poco e niente l’insegnante eroico tiri fuori come da un cappello magico un risultato sorprendente».

La Flipped Classroom

Piero mi parla poi della “flipped classroom”, ovvero “La classe capovolta”. Cosa prevede? Essenzialmente di ribaltare l’idea di un insegnante che parli in anticipo e di studenti che intervengano dopo. Grazie alle moderne tecnologie – in questo caso basterebbe anche solo uno smartphone e una connessione a internet – i contenuti potrebbero essere appresi prima dagli alunni, a casa, e successivamente discussi in classe: una proposta che ha suscitato non pochi malumori. Se da un lato trova l’appoggio di uno studioso come Tullio de Mauro, infatti, dall’altro va incontro alle resistenze di non pochi linguisti.

Un esempio virtuoso: l’I.I.S.S di Francavilla Fontana

«Vuoi che ti faccia il bilancio di questo primo anno?», mi chiede Piero. «Da una parte ho visto un grande entusiasmo ma dall’altra una passività disarmante, con tutte le eccezioni del caso. Puoi trovare la trentenne che nel consiglio d’istituto non fa che twittare, ma poi per l’insegnamento pretende solo strumenti cartacei e un sessantenne che al contrario si mostra interessato agli iPad e umilmente si lascia perfino aiutare dai ragazzi». Un esempio virtuoso viene dalla provincia di Brindisi, precisamente dall’I. I. S. S. “Lilla” di Francavilla Fontana, dove un dirigente illuminato è riuscito a trovare i fondi per finanziare l’acquisto di computer e altri strumenti al passo coi tempi, e dove il gap tra studenti e insegnanti non è più un limite da superare.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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