Tik Tok non spegnerà mai i riflettori sugli Usa. La propaganda muscolare di Donald Trump in ottica rielezione non è in grado di dismettere un business miliardario che coinvolge personaggi più ricchi di lui. Il social cinese copre attualmente 155 stati ed è tradotto in 75 lingue, nel 2019 è stata la seconda app più scaricata al mondo dopo Whatsapp. Solo qualche anno fa l’idea che una dal nome tanto buffo potesse mettere in crisi la sicurezza globale e nascondere spionaggi internazionali avrebbe fatto sorridere, e in parte fa sorridere ancora. Anche perché la dead-line per il passaggio di mano a player nazionali, affinché continuino a detenere il predominio del mercato, è stata fissata proprio da chi nel 2018 restò impelagato nello scandalo Cambridge Analytica: milioni di dati di account Facebook di connazionali, raccolti senza consenso dagli uomini del presidente a scopo di promozione politica.
Tik Tok: la delicata partita per l’acquisizione
Lo scenario economico. Poco importa se sarà Oracle o Microsoft ad acquisire TokTok, se cambierà ancora nome per riverniciarsi e nascondere le ruggini: nella partita per l’acquisizione sono in ballo calcoli geopolitici che esulano dalle regole del mercato, ma non lo fermeranno. La data di scadenza, se non si dovesse trovare un accordo commerciale, sarà prorogata finché l’accordo non si troverà perché da tempo l’economia guida la politica anziché viceversa, e alla Casa Bianca lo sanno bene.
Limitazioni e minacce hanno momentaneamente frenato un’ascesa che prima del lockdown era vicina ai 2 miliardi di utenti di Youtube, oltre 40 milioni dei quali attivi.
In Italia sono circa 7 e passano in media un’ora e mezza al giorno su TikTok, aprendolo una decina di volte a ogni ora. Figuriamoci durante la chiusura: Qustodio e TechCrunch stimano che nella prima metà del 2020 l’uso tra gli adolescenti sia cresciuto del 200%. I 50 produttori di video più seguiti hanno più follower del numero di abitanti del Messico, Canada, Uk e Usa messi insieme: 587 milioni. La maggior parte ha meno di 30 anni, equamente distribuita tra uomini e donne. Per questo il matrimonio con un partner americano si farà, e non deve stupire che la dote si aggiri sui 30 miliardi di dollari.
Al di la di chi, quando e come s’aggiudicherà l’asta, è da considerare infatti il dato di quanti e quali interessi circondino oggi una app di successo, nata solo 4 anni fa diventando oggetto di ricatti economici, ago della bilancia di sottili equilibri diplomatici.
Il contesto geopolitico. Impossibile non notare come il diktat di Washington sia scoccato in piena guerra dei dazi con Pechino, forzando il braccio di ferro in corso: dopo l’ok alle rivolte anticinesi di Hong Kong e l’accusa d’aver infettato il pianeta con un virus di laboratorio, il no a TikTok è l’ultima pallottola in canna, sparata a favore di telecamera contro il nemico “comunista” d’oltreoceano e quello democratico in patria. E’ stata l’India a bandire per prima Bytedance a fine giugno, insieme ad altre 58 app cinesi, guarda caso subito dopo uno scontro a fuoco al confine per un territorio conteso. Comunicando poi vittoriosa che la società madre ha perso 6 miliardi di dollari grazie al divieto. Ma a perdere è stata anche l’India, come ci perderà l’America. Come se quel denaro non circolasse anche nel proprio pil e il benessere generale non dipendesse dai servizi che anche TikTok mette in moto. Certo nessuno è indispensabile e per i vantaggi di una supremazia militare si possono anche sopprimere decine di app, a far pensare è però lo strapotere ottenuto in tempo record dai social network: tale da aprire, nella guerra vera, una frontiera digitale. Alternativa a tasse e sanzioni sulle merci materiali.
Un precedente pericoloso. Il problema sulla sicurezza dei dati su TikTok è scattato dall’analisi con reverse-engineering di un utente Reddit, rilanciata dalla denuncia degli hacktivisti di Anonymous della presenza di un malware 007 al servizio della Cina e pubblicata infine dal Wsj: un altro “virus” insomma, ma informatico, propagato per eseguire uno spionaggio di massa. Bytedance ha invitato a scaricare gli aggiornamenti e ribattuto che l’attuale versione non traccia indirizzi identificativi Mac. Già, ma le precedenti? Lucchetti che scattano in assenza di prove certe sulla frode, e di un rinvio a giudizio, creano comunque un rischioso antefatto: di questo passo, oltre ai beni fisici, qualunque nuovo prodotto digitale Ict, vecchio o nuovo, potrebbe finire nel tritacarne geopolitico, nella black list strumentale al rafforzamento dei rapporti e dell’immagine di un establishment governativo, guidato da obiettivi strategici estranei a dinamiche di mercato.
C’è finito anche un altro colosso cinese, Huawei, ugualmente accusata di pedinare e sorvegliare gli occidentali per conto di Pechino e che sta già pagando da mesi il saldo di un “embargo” di Trump nella fornitura di reti 5G e dispositivi mobili per ricevere il nuovo segnale, imposto anche ad altri paesi Nato. Ma l’Europa è disposta a seguirlo fino a un certo punto: non è certa di spuntarla nella dura battaglia legale che s’annuncia in tribunale, e non è facile smantellare da un giorno all’altro l’equipaggiamento di una società che ha costruito buona parte del 4G. I privati, per fortuna, vanno avanti senza badare a dietrologie politiche: una nuova app appena attivata da Banca Mediolanum, ad esempio, si serve proprio della tecnologia Huawei per gestire il conto corrente da cellulare. Il prossimo pomo della discordia tra stati sarà l’e-commerce di Alibaba?
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