Tobias Bayer: I giovani italiani senza lavoro fanno delle startup

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(Questo testo è stato estratto da un articolo di Tobias Bayer pubbicato sabato 19 Gennaio sul quotidiano tedesco Die Welt. Si ringrazia Mattia Corbetta per la gentile traduzione)

Storicamente l’eccesso di regolamentazione ha impedito la costituzione di molte nuove imprese. Ora le cose devono cambiare.

Christian Errico ha appena trascorso un anno all’università per quella che probabilmente è la variante italiana di un percorso di studi accelerato. Il ventenne, diplomato elettrotecnico, ha frequentato diversi corsi presso il Politecnico di Milano e oggi si autodefinisce ” designer della luce”.

Anche se non si è laureato, ha qualcosa che manca a molti giovani italiani: un posto di lavoro. “Molti dei miei amici hanno studiato, ma non trovano niente o, quanto meno, niente di attinente al loro percorso di studi”, racconta Errico.

“Quindi ho scelto di prendere solo ed esclusivamente i titoli di cui avevo veramente bisogno.” Errico lavora per la startup “GI3″. Offre consulenza ad alberghi, centri commerciali e imprese e mostra loro come ridurre il consumo energetico con scelte intelligenti rispetto all’illuminazione e all’isolamento. La società non ha un suo ufficio, e in tutto conta solo quattro persone. Errico e il suo compagno di lavoro Gianluca Colombo dividono una scrivania, gli altri due li raggiungono e prendono una sedia vuota. Computer, cellulare e una calcolatrice verde – più che sufficiente.

Il nuovo mondo del lavoro italiano si può visitare in Via Sarpi 8, nel quartiere cinese di Milano. “GI3″ e altre nuove imprese sono situate presso “Hub Milano” – una vecchia fabbrica dove oggi vengono sviluppate nuove idee di business.

L’ingresso è in un cortile interno, davanti a un negozio di macelleria cinese che espone in vetrina zampe di gallina. Appena dietro la porta spiccano un foglio con la tabella degli orari e una lavagna di sughero, su cui campeggiano le effigi degli imprenditori del futuro. Nella sala principale ci sono banchi vuoti. Seguono una cucina in comune e una sala conferenze con una flip chart. Ci si può rilassare in una sala con pavimento di vetro al secondo piano.

Il padrone di casa si chiama Marco Nannini e si siede in un angolo nel retro della stanza. Il 46enne è stato un consulente aziendale ed è dallo scorso anno co-proprietario di “Hub Milano”. Ai giovani imprenditori mette a disposizione scrivanie, connessioni internet ad alta velocità, caffè e uso della cucina.

Inoltre fornisce l’accesso a una rete interna online grazie alla quale tutti possono comunicare e condividere informazioni. Per gli eventi di business i ragazzi ricevono suggerimenti e dritte sul lavoro in proprio. A seconda della formula d’adesione prescelta, il prezzo dei servizi varia tra 20 e quasi 800 euro al mese.

“Dopo la seconda guerra mondiale in Italia sono state fondate molte imprese. Poi questo fenomeno si è attenuato” dice Nannini. “Ora i giovani italiani prendono di nuovo l’iniziativa”. L’idea, che nasce a Londra e San Francisco, si sta diffondendo rapidamente in Italia. Dopo Milano sono stati aperti l’uno dopo l’altro Hub a Bari, Rovereto, Roma, Siracusa, e Trieste. A Firenze al momento si è in fase di progettazione. “Presto avremo sette centri. Per un network di natura globale si tratta davvero di una buona presenza”, afferma Nannini. Nel mondo ci sono 34 Hub, 50 se si contano quelli che stanno per essere inaugurati.

Ai giovani italiani non è rimasta altra scelta se non quella di diventare imprenditori. Il Paese è impantanato nella crisi, l’anno scorso il prodotto interno lordo si è ridotto di oltre il due per cento. Nel mese di novembre, il tasso di disoccupazione per i giovani tra i 14 e i 24 anni si attestava al 37,1, un nuovo record negativo. Nella stessa fascia d’età, la percentuale di coloro che cercano un lavoro si attesta sull’11% e rappresenta più di 640.000 giovani. I numeri non riflettono esaustivamente tutte le difficoltà. Molti ragazzi operano in condizioni precarie. Lavorano duro come stagisti non retribuiti, sgobbano da anni come freelance – anche se hanno sempre gli stessi clienti-, o passano da un contratto a tempo determinato all’altro. I grandi perdenti della crisi italiana sono loro, i giovani. Avviare un’impresa potrebbe rappresentare una via d’uscita. Ma anche questo è difficile in Italia. Si inizia con la burocrazia. Chi osa imboccare la strada dell’imprenditoria, deve prima di tutto ottenere diverse autorizzazioni.

Deve registrarsi presso la Camera di Commercio, il sistema pensionistico e l’assicurazione del lavoro. In teoria, questo dovrebbe avvenire semplicemente con un click; tuttavia, di fatto c’è pure bisogno di uno specialista per aiutare a compilare tutti i documenti. Poi vengono le imposte e le commissioni, che variano a seconda della società. Questione delicata: le imposte sugli affari e sulle società vengono corrisposte dalla start-up al momento dell’emissione delle fatture. Dal momento che in Italia la morale dei pagamenti versa in cattive condizioni, spesso il fisco riscuote quando la cassa è ancora vuota.

Il governo di Mario Monti ha dunque cercato di aiutare le startup. Ha introdotto una nuova forma di società, la “Società semplificata a responsabilità limitata” o S.s.r.l. Quanto al capitale, è sufficiente 1 euro, e in più l’impresa viene esentata da alcune imposte. Da inizio anno è in vigore anche il pacchetto “Decreto Crescita 2.0″ lanciato dal ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera. D’ora in poi le startup saranno iscritte in un registro. Le realtà imprenditoriali che soddisfano i criteri – ad esempio quelle le cui spese sono riconducibili per almeno il 20 per cento ad attività di ricerca e sviluppo – vengono esonerate dal pagamento di alcune imposte amministrative. Le startup possono pure assumere i dipendenti più facilmente e questi possono essere retribuiti con azioni. Se le cose vanno storte, la società può essere liquidata rapidamente.

“Con il decreto abbiamo imboccato la strada giusta, ma il cammino da percorrere è ancora lungo”, spiega Selene Biffi. “Il problema non è rappresentato solo dagli ostacoli amministrativi, si percepisce anche una certa resistenza culturale”. La trentenne, proveniente da Mezzago, a nordest di Milano, ha consigliato Passera, e ha tutte le carte in regola per un compito di questo tipo.

“Alla fine degli anni ’70 mio padre è andato in autostop dall’Italia all’India, dove in 20 anni è riuscito a costruire a sue spese una clinica a Jalipur”. Biffi ha ereditato dal padre la passione per il viaggio e l’impegno sociale. Dopo aver studiato economia alla prestigiosa Università Bocconi, è stata consigliere per le Nazioni Unite, ha lavorato in Afghanistan, Cina e India e allo stesso tempo ha fondato un’attività in proprio.

Nel 2005 è andata a “Porta a Porta” in Italia per promuovere “Youth Action for Change”. La suo idea suonava così: “I giovani devono offrire corsi online per i ragazzi di tutto il mondo, anche per quelli del Papua Nuova Guinea, dove il computer successivo può trovarsi a venti chilometri di distanza”. Ma dalle aziende, dalle fondazioni e dalle associazioni di beneficenza raccoglieva solo risposte negative. “Ero molto giovane, per giunta donna e parlavo di internet prima dell’era di Facebook e Twitter. Non avevo alcuna possibilità”, spiega Biffi, che alla fine ha realizzato il suo sogno autonomamente. Da allora grazie alla sua impresa si sono formati circa 4.000 giovani.

Da marzo 2010 ha fatto partire il suo secondo progetto. Si chiama “Plain Ink“. Stavolta Biffi produce libri a fumetti, tra l’altro per i bambini in Afghanistan e in India. Anche in questo caso ha fatto il giro dell’Italia, e ancora una volta nessuno l’ha aiutata. È grazie a Renzo Rosso che poi è riuscita a partire. Ha incontrato il fondatore del jeans “Diesel” ad un convegno a Milano. Rosso è rimasto colpito e ha contribuito con 15.000 € attraverso la sua fondazione. “C’è voluto un visionario come Rosso per realizzare Plain Ink”, spiega Selene.

Ottenere finanziamenti per le idee di business è difficile in Italia, il capitale di rischio è scarso. Secondo un rapporto ministeriale nel 2011 ammontavano a solo 120 milioni di euro i capitali a disposizione per finanziare nuove imprese. Poiché in media il denaro resta vincolato per circa cinque anni, si può calcolare che la cifra corrisponde a quasi 25 milioni di euro all’anno. “Gli italiani risparmiano molto, ma, come da tradizione, investono il proprio denaro soprattutto nel settore immobiliare”, spiega Marco Villa, co-fondatore e direttore dell’associazione “Italian Angels for Growth” Association (IAG), cui hanno aderito 108 Venture Capitalist.

Il pacchetto legislativo ora concede agevolazioni fiscali fino al 2015 ai Business Angels. “Queste misure vanno salutate con favore ma non attraggono un gran numero di investitori”, afferma il fondatore di IAG Villa. Ancora più importante sarebbe stato poter detrarre dalle imposte le perdite che si accumulano nelle start-up. “La metà di tutte le nuove imprese fallisce”, ha detto Villa. “All’estero, come ad esempio nel Regno Unito con la “Enterprise Investment Scheme”, tale detrazione viene compiuta regolarmente”.

La Biffi ha viaggiato in tutto il mondo ed è sempre tornata in Italia. Ora ci vuole provare con un’altra startup, così da finanziare i fumetti di “Plain Ink”. Un potenziale donatore ce l’ha, ed è un italiano. Lui però confida: “sarebbe più facile avviare l’azienda all’estero”.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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